E' solo febbre

Di solito quando arriva il periodo degli esami si pensa a tutto pur di non studiare. Per questo, ultimamente, mi capita molto spesso di pensare al fenomeno che sta prendendo sempre più piede nella nostra società e che risponde al nome di design. Che poi è un suono molto ricercato per dire architettura delle cose e degli ambienti, da quanto ho capito. Esigenze che tale fenomeno vuole soddisfare, in ordine sparso d'imporanza, sono: vivere nel bello, vivere nell'arte senza troppo impegno, esteriorizzare la propria personalità attraverso le curvature delle linee degli oggetti di cui ci circondiamo.
Sempre da quanto ho capito.

Guardo il servizio sul salone del mobile a Milano.
Ci sono ragazze fiche, tanti tailleur, scarpe lucide, pelli abbronzate, galloni di martini, tazzurelle giapponesi, sushi a profusione; techno minimale a condire il tutto. Poi, in mezzo a tutto questo, una poltrona da diecimila euro.
Arte, dicono.

Eppure, a pensarci bene, tutto ebbe inzio quando l'uomo delle caverne, per riposare più comodamente, sistemò nella sua caverna un mucchietto di paglia per terra sul quale dormire. E io, a migliaia di anni di distanza, ho il terrore di tornare a casa un giorno, ansioso di vedere il debutto dell'Italia ai mondiali del 2010, e trovare centocinquanta coglioni con calici di martini e sushi in mano che parlano di arte del concetto, di concetto nell'arte, e che commentano il mio divano.
"Un ottimo mix di retrò e vintage, un gusto unico, particolare. Le sue linee pronunciate creano una rottura con l'ambiente circostante, quasi a simboleggiare un'armonia persa e mai più ritrovata. Posso sapere chi è il creatore di questa meravigliosa opera?"
"Falegnameria Igino."
"Non conosco..."
"Bé, ha avuto i suoi momenti."

Che poi è la stessa cosa con le sfilate di moda.
Guardo i servizi al telegiornale e vedo ragazze esili come giunchi che caracollano su un palco, tacchi altissimi, vestiti sobri e per nulla appariscenti.
Come quelli indossati dai manifestanti del gay pride per capirci.
Ancora, modelli-manichini non meglio identificabili e invasati vari ingiustamente premiati dalla vita, come ad esempio Roberto Cavalli, o Flavio Briatore, non ho ancora capito la differenza. Poi, come degna conclusione, sento i lifting di Donatella Versace parlarmi di made in italy. Anche questa è arte, dicono.

E penso ancora all'uomo delle caverne di cui sopra che scuoiava qualche animale per coprirsi con le sue pelli ed evitare così di morire di freddo. E io, a migliaia di anni di distanza, ho il terrore di uscire di casa, incazzato per aver appena scoperto che le provviste di birra sono finite, ed essere fermato da un uomo avvolto in una tunica bianca, o da una donna vestita come un pavone, che mi chieda a quale collezione appartenga la mia maglietta, e che elogi il mio stile ricercatamente trasandato.
"Così essenziale eppure così denso di richiami...e la completa mancanza di accessori, poi, che colpo di genio! Sarà la nuova frontiera: liberi, autentici, alla riscoperta di noi stessi. Posso sapere chi è il suo stilista?"
"Buonsenso."
"Italiano?"
"Si, ma non lo conosce nessuno."

I comuni denominatori fra le due situazioni che sono riuscito a trovare sono l'ormai celeberrimo uomo delle caverne e Milano. Ora, il nostro amico con la clava ha già il suo bel daffare a procurarsi il cibo combattendo con animali che pesano dieci volte lui, a non morire di freddo nella sua grotta non certo accogliente, a trovare una compagna con cui perpetrare la specie e mantenere vivibile e relativamente pulita una caverna dalla metratura smisurata; addossargli quindi anche le colpe delle umane scelleratezze mi sembra eccessivo.
Resta Milano, dunque, unica città al mondo dove bello si dice cool, brutto si dice out, spostare una sedia si dice feng shui, rilassarsi si dice chill out, il rumore del mare che esce dallo stereo si chiama new age, e ogni cosa che fai e che sei ha un nome inglese che non significa un cazzo. Dove è tutto così eccessivo che neanche mangiare macrobiotico, ballare techno radical chic e vestire metro sexual ti rende diverso.
Va da sé che in un posto del genere arte potrebbe benissimo voler dire, che so, delirio, immondizia, pattume. O merda, perché no.
Ma, a pensarci bene, Milano è la fedele riproduzione in scala di un'intera società che tende alla caricatura di se stessa, in cui le persone sono retrocesse allo stato di cyborg: sentono gli stimoli solo se fortissimi, i loro sensi sono catturati solo da ciò che è esagerato, incredibile. Dove la dimensione intima è un pericolo mortale, ogni emozione deve essere pubblicamente esposta e spettacolarizzabile.

Milano è il luogo dove tutto diventa prima brand e poi trendy, dove tutto nasce grotteco e muore ridicolo. Milano è la metastasi di ogni pensiero, il pus di ogni contaminazione, la deriva di ogni idea.
Una delle cose peggiori che l'uomo abbia mai creato.
Certamente qualcuno potrà farmi notare che bisogna in ogni caso avere rispetto per il lavoro altrui, perchè dietro il processo di creazione che porta ad un mero prodotto, ovvero un mobile o un vestito, ci può essere un'idea nuova o un concetto particolare, ma io sono un empirista e valuto la realtà dalla realtà, non dalle intenzioni, quindi me ne sbatto i coglioni e continuo ad abbaiare.
"Se piacerà, ti piacerà."

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