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Viaggio in musica /3

Micah P. Hinson



Da diversi anni mi ero ripromesso di andare ad ascoltare Micah dal vivo ma non ci ero ancora riuscito, complici la disponibilità di ferie mai sufficiente a fare quello che si vorrebbe e la distanza geografica che, nonostante la tecnologia, in certi ambiti non smetterà mai di essere un problema.
Hinson cominciò a incidere dischi nel 2004 con il meraviglioso Micah P Hinson & The Gospel of Progress, album che scoprii solo un paio d'anni dopo, grazie ad un coinquilino musicalmente curiosissimo, in coppia con Baby And The Satellite, all'epoca fresco fresco di stampa. Di dischi, negli anni seguenti, l'ormai trentenne texano continuò a produrne con generosità, io cominciai però a lavorare e questo mi portò inevitabilmente a perdere più di qualche aggiornamento.
Poi, appena due sere fa, ho ripreso contatto.

Micah si presenta da solo, con la sua acustica in versione bonsai e tutte le sue compulsioni: molti pacchetti di chewing-gum e litri su litri di succo d'arancia. E' un chiacchierone, racconta e si racconta. Ha le mani che tremano vistosamente - un incidente in Spagna, dice lui, che lo ha costretto a reimparare da zero a suonare la chitarra -, un paio di occhiali troppo grandi per stare su una testa così piccola e un gilet che niente ci azzecca con le Nike da tennis che porta ai piedi.
Poi comincia a suonare: gli accordi sono imprecisi, a volte stentati, i testi sembrano scivolargli via come fossero pensieri inafferabili.
Spesso si interrompe, ci guarda, si scusa, diventa rosso e comincia ad accordare ossessivamente il suo strumento. A volte è difficile stargli dietro perchè ci si rende facilmente conto che la sua non è teatralità, non vuole inscenare il vezzo, è tutto troppo spontaneo.

Alla fine però resta sul palco un paio d'ore e quando riesce a far funzionare tutto, in quei brevi minuti, rimane solo un ragazzo smilzo e vestito in modo orrendo con la sua musica meravigliosa. E' un folk che parla di amori che vanno e cazzotti che vengono, notti in cella - jail, not prison, it's not exactly the same thing, tiene a farci sapere - portato a livelli di intensità emotiva altissimi dalla sua voce rugosa e piena di polvere, che si alza dalle macerie dell'american dream e si va a ritagliare una posizione d'onore da qualche parte fra Bob Dylan e Tom Waits.

Non scorderò mai questo paio d'ore trascorse con lui.
Ci vorrebbero ogni giorno di ogni settimana personaggi così per ricordarci che fare musica è prima di tutto qualcosa che si desidera oltre ogni ragionevole limite, e lo stesso discorso vale per chi la ascolta; i discorsi su forma e sostanza vengono dopo e lasciano il tempo che trovano. Mi sono sentito meglio dopo una ventina di canzoni tutte antipodali all'epica rock di stampo anglosassone fatta di conerti larger than life e tonnellate di cattivo gusto, rincuorato e più soddisfatto, perchè c'è bisogno di persone vere in un mondo di tappeti rossi e anteprime mondiali.
La musica tutta ti ringrazia, se è ancora vero che è la più effimera e fragile delle arti, Micah.

"May your songs always be sung 
and may you stay forever young"



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Un altro punto di vista

Oggi voglio segnalarvi un articolo molto interessante apparso una decina di giorni fa su Internazionale.
Vestendo solo per un attimo i panni del professionista, vi ricordo che con i tempi che corrono reperire i 6 miliardi di euro di cui si parla nell'articolo avrebbe un costo molto elevato per qualsiasi nazione. Le aste dei titoli di Stato della settimana scorsa ci dicono che questo costo per l'Italia si attesterebbe tra l'1,60% del capitale, per la scadenza a 6 mesi del finanziamento, e il 5,80% per quella a 10 anni.
Sono paccate di milioni (Elsa Fornero cit.), no banane.
 
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battaglie 2puntozero

La vicenda giudiziaria Apple-Samsung ha finito per suscitare il mio interesse più di quanto potessi pensare. E questo è successo, come spesso accade, quando ho smesso di guardare ai dettagli (non sapete quanto si possa diventare curiosi passando Agosto in ufficio) tecnici a supporto dell'una o dell'altra tesi e ho fatto un passo indietro.
Anche se le due società sono leader mondiali nella tecnologia consumer, gli oggetti del contendere sono sempre gli stessi: brevetti, licenze e utilizzazione delle opere d'ingegno.

Ma a ben vedere il problema è sicuramente di ordine etico.
Insomma: possibile che 'sti stronzi possano brevettare tutto?
Vale la pena approfondire un po' perchè per "tutto" qua si intende "davvero tutto l'esistente": dalle sementi della Monsanto e simili alla forma di iPhone e iPad (un rettangolo smussato, eh capirai...), passando per l'accostamento cromatico rosso-argento-nero della Coca-Cola.

Mentre nelle aule dei tribunale americani e sud-coreani legioni di avvocati di Apple e Samsung pretendono di difendere l'innovazione, essa viene in realtà svilita e messa in grave pericolo. Prima di schierarci per l'una o per l'altra parte, a seconda di quale delle due aziende griffa il telefonino che portiamo in tasca, dovremmo chiederci se l'innovazione, per costituirsi nel suo significato autentico, debba avere una natura partecipativa, debba cioè essere esperita un passo dopo l'altro da un'intera comunità, oppure magica, dono oscuro di una manciata di capitani d'industria, sedicenti geni visionari, che blindano le loro idee all'interno di processi economici dominati da concetti avvenieristici quali economie di scala e remunerazione degli azionisti.

Vorrei che i nostri legislatori cominciassero a prendere confidenza con l'idea che c'è un limite oltre il quale non è eticamente accettabile brevettare l'innovazione, se è ancora vero che essa ha come fine ultimo il miglioramento della qualità della vita di tutti, anche dei soggetti che non hanno la possibilità di accedere al tempio del consumo.
Vorrei che si cominciasse ad analizzare il concetto di licenza o diritto d'autore con strumenti nuovi, quali quello di Bene Comune o di Copyleft; vorrei anzi che a questi ultimi venisse finalmente riconosciuto lo status di strumeto di analisi e che si smettesse di considerarli un vezzo per trentenni controinformati e disoccupati.


Vorrei che focalizzassimo di più l'attenzione sulla differenza fra un processo e il suo risultato. Il primo è dinamico e immateriale, esiste solo quando viene partecipato. Ai soli partecipanti appartiene, esclusivamente per loro genera conoscenza. Di conseguenza, se crediamo che essa debba essere condivisa, non possiamo che auspicarci la più larga partecipazione possibile ad ogni processo innovativo. Il risultato, invece, nasce quando la conoscenza si fissa nella materia e diventa prodotto. Che si venda, questo prodotto, che generi profitto, molto, ma non intacchiamo i processi, non permettiamo che smettano di comunicare e di influenzarsi tra loro.
Capiamo questo punto, altrimenti finisce male.
Finisce male e, più prosaicamente, a furia di brevettare forme geometriche e colori, il vostro prossimo tablet potrebbe essere così: 



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Viaggio in musica /2

La seconda puntata di questa giovane rubrica vi viene proposta in differita di qualche giorno, non fateci caso.

Girless & The Orphan - Same name for different girl



Qualche mese fa decisi di passare un Sabato sera in compagnia dei Fine Before You Came. Iniziava l'estate e la pratica del viaggio si poteva sbrigare in un'oretta di macchina. C'erano diversi gruppi in scaletta, nessuno dei quali mi diceva niente, e in quella scaletta c'erano pure loro, i Girless & The Orphan.
Più precisamente: Girless è un ragazzo che gira l'Italia con la chitarra  in mano, The Orphan pure, la chitarra la suonano insieme e sono pure molto amici dei succitati FBYC.
Il live è stato davvero piacevole così come lo è stato vederli agitarsi sul palco insieme ai favolosi headliner, di conseguenza, appena tornato a casa, non ho potuto far altro che andare ad approfondire i loro lavori sul sito della casa discografica raccomandatoci dai diretti interessati, muniti di grinta da vendere ma non di banchetti.
qui potete trovare la sezione dedicata al free download.
Ho scelto il loro primo ep perchè una bella storia merita sempre di essere conosciuta fin dal suo inizio, e anche perchè è quello fra i tre con la resa dal vivo più fedeli.
Due chitarre acustiche allo sbaraglio che si destreggiano con disarmante naturalezza fra furibondi folk irlandesi, ambientazioni intimiste e ballatone melodiche. Ne sentiremo parlare presto, magari in occasione del loro primo album






Neutral Milk Hotel - In The Aeroplane over the sea

Se tutti gli album che dovevano fare la storia l'avessero fatta davvero, la storia sarebbe migliore.
Lezioni di musica senza troppi fronzoli.
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trashissimamente tuo

La globalizzazione, proprio lei, la volevano tanto ed eccola qua.
L'articolo del Sole 24 Ore  ci propone una metafora azzecatissima, mi verrebbe da dire sublime data la materia che tratta, di questo tempo così opprimente: tutto quello che abbiamo così avidamente consumato, persi nel sogno erotico della possessione sfrenata, ci sta ora seppellendo. Da Roma a Napoli, da Napoli a Salonicco, la nostra libertà di scelta si è trasformata nella nostra bara.
La monnezza sta circondando le nostre città, battendo le nostre strade con fare battagliero e minaccioso, puntandole dritte al loro cuore, unica parte dell'organismo urbano per ora salva dall'insidia a causa del fatto che, grazie a dio, (anche) di turismo ci campiamo.

Metafora nella metafora? Affondo il colpo? E affondiamo!

La città che se la sta passando peggio nel nostro paese, togliendo con un lercio colpo di reni il dominio della fetida graduatoria alla sempiterna Napoli, è Roma, la nostra capitale, l'epicentro della nostra civiltà.
Nel 2012 nella capitale d'Italia non viene fatta la raccolta differenziata.
Puntualizziamo: non è che ci siano problemi di organizzazione della raccolta, di personale insufficiente, di scarsa efficienza degli impianti, no; la raccolta differenziata non esiste, così come non esiste nella testa della maggior parte dei romani un qualche concetto di rispetto e tutela dell'ambiente, cosa che presumo dal fatto di non aver mai visto romani riempire le proprie piazze chiedendo che venga introdotta.
Diciamocelo, non sta un gran bene Roma. Questo non è positivo, non ne sono felice, perchè è pur sempre la città eterna, però basta una nevicata...sì, ok, non prevista, ma pur sempre una spolverata o poco più...e non parliamo della pioggia...vabbè, abbondante, e chi lo nega, più o meno quella che ogni agricoltore abbia mai implorato qualche volta nella sua vita.

Se è vero che Roma e i romani sanno che la storia non dimentica, hanno dimenticato che essa non è clemente verso la supponenza.
E pensare che basterebbe così poco, appena un accenno di coscienza ecologista. Su, coraggio, non siamo negli anni Settanta: i tempi sono maturi per certe cose!
Sesso extra-coniugale, olè! Sesso anale, olè! Marijuana Hashish LSD Amfetamine eroina cocaina, olè! Presidente donna, olè! Vedete? Possiamo parlarne ora! Porca mado...no, di questo ancora no effettivamente, ma del resto sì; del resto possiamo parlare.
Coscienza ambientale può voler anche dire scegliere una semplicissima maglietta a dieci euro prodotta a Ponte Pì (per dire) al posto del suo equivalente cinese da cinque e mezzo.
Confindustria e i suoi figliocci ci hanno fracassato i coglioni con la qualità e l'eccellenza ma la verità è che non tutti vogliamo o possiamo permetterci solo ed esclusivamente il meglio, questo non significa però che anche nella mediocrità del consumo non possiamo scegliere.
E non solo quando si tratta di guardare la televisione.
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Viaggio in musica

L'autoradio con il lettore mp3 è stata una bella svolta per me. Così, complice una piccola chiavetta usb da 8 giga, satura delle più disparate discografie, ho deciso che ogni tanto vi parlerò delle sorprese che saprà tirare fuori dai suoi anfratti digitali durante qualcuno dei miei lunghi viaggi.
Spero che i contenuti possano risultare interessanti quanto basta per sopperire alla scarsa originalità - mi tocca ammettere - dell'idea.

Il Buio - Il Buio

In quella stretta intercapedine situata fra hard-rock, hardcore e l'emo primordiale degli indimenticabili At the Drive-In, questi ragazzi di Thiene hanno infilato due anni or sono un album sorprendente per impatto sonoro e ispirazione, confermando ancora una volta il buono stato del fermento musicale in Veneto.
Nonostante le poche tracce contenute nel lp, non si fa fatica a riconoscere che la band è tosta, già matura per conquistare il bel paese armata di furgone e strumenti e, soprattutto, consapevole dei propri, notevoli mezzi.
Un disco che potete regalarvi con soli 3,99 euro scaricandolo dal loro sito, e scusate se è poco.




Pj Harvey - Rid Of Me

Nel 1993, mentre dal paese a stelle e strisce soffiavano rabbiosi venti di grunge e il metal aveva appena finito di scoprirsi più bello nel trash, un'esile fanciulla pubblicava in Europa un disco incredibile che rivendicava il buon nome del vecchio rock. L'affascinante tripletta inziale formata dalla title-track, Missed (uno dei più bei pezzi scritti in quegli anni fecondi, a mio avviso) e Legs sarebbe bastata da sola per conquistare qualsiasi ragazzotto americano da Boston alla California passando per Seattle, se solo si fosse degnato di buttare un orecchio anche oltreoceano.
Personalmente trovo molto triste il continuo chiacchiericcio sugli idoli di oggi che non sono più quelli di una volta (leggi Oasis e Guns N' Roses) quando un album così se lo sarebbero potuto solamente sognare anche loro, dal basso della loro supponenza.
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il dogma dell'inopinabilità

Vado dritto al sodo, perchè negli ultimi mesi è entrato in circolazione un virus pericolosissimo che ha trasformato tutti in professori di finanza prima e in maestri di retorica poi, e non mi pare il caso di alzare la posta giocando al tavolo della demenza.
Il punto è che sappiamo tutti che l'articolo 18, ormai, rappresenta poco più di una gracile inferriata intorno ad un palazzo che sta diventando maceria eroso dal cancro dell'autoconsunzione.
Perchè, allora, battere sempre sullo stesso chiodo?

L'articolo 18 rappresenta la summa di tutte le conquiste derivate da decenni di conflitti sociali, la fine di un percorso che portava in dote la promessa di un mondo meno sperequato, e la sua quotidiana vessazione rientra tragicamente nella linea politica di un governo che si dice tecnico ma che da settimane dimostra sempre più insofferenza, se non odio profondo, verso tutto quello che è al di fuori della propria ortodossia ultraliberista.
Non sarebbe comprensibile, altrimenti, il rifiuto categorico di inserire nella previsione legislativa la possibilità del reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato, diniego che sottotintende la sua colpevolezza a prescindere. Come se un ladro colto sul fatto non fosse costretto a restitutire la proprietà di quanto sgraffignato ma solo una frazione del suo valore in denaro. E' di questo che vogliono spogliare ogni lavoratore, della proprietà (e paternità) dei propri diritti.

E' per questo che non è importante se l'articolo 18 sia o meno determinante per il funzionamento del mercato del lavoro, se le energie rinnovabili siano davvero la salvezza o solo una divagazione lungo il cammino che porta al baratro; è fondamentale che essi vadano cancellati comunque e per primi, perchè sono, rispettivamente, il simbolo di un passato che è stato e di un futuro che potrà essere, entrambi diversi da quelli che i vecchi padroni del mondo potevano capire o sono diposti a prendere in considerazione. Perchè una rivoluzione ideologica si fa così: cancellando ogni vago ricordo di quello che c'era prima e facendo credere che resisterle sarebbe solo ipocrisia, pura ideologia appunto.

Una guerra di religione è vinta solo quando i nuovi dogmi, i nuovi riti e le nuove icone hanno sostituito i loro vecchi corrispettivi nella testa di tutti. Attribuendo capacità senzienti ai mercati finanziari si è voluto dar loro diritti e tutele mai viste prime (attenzione: con lo stesso modus operandi si era agito anche per inquadrare giuridicamente il diritto alla vita degli animali) per creare il dogma del mercato omniscente. Il rito, invece, si consuma nella ripetizione fiera dell'inopinabilità delle scelte fatte in suo nome, deilla sosetenibilità dei modelli pensati a sua éikòna.
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#notav


Nel suo breve ma intenso Consigli ad un giovane ribelle, caldamente consigliato a tutti coloro che non lo avessero già letto, Christopher Hitchens ricorda un passaggio importante de L'essere e il nulla di Sartre, nel quale il filosofo francese delinea una netta separazione fra la figura del ribelle e quella del rivoluzionario.
Descrive gli appartenenti alla prima categoria come attenti e segreti protettori dello status quo, essendo proprio tale permanenza a garantire loro la possibilità di ribellarsi. Nella seconda tipologia, invece, troviamo chi veramente vuole cambiare, se non addirittura sovvertire, le condizioni esistenti.
E' un'impresa titanica cambiare le regole di un gioco che premia chi storicamente deve essere premiato, e per farlo occorre arrivare al confronto, che può facilmente diventare scontro quando le questioni toccate sono così delicate, scansando le più o meno galanti offerte al "darsi una calmata".

Sono fieramente un NoTav perchè nella Val Di Susa io vedo molti rivoluzionari e davvero pochi ribelli. Vedo gente che vorrebbe vivere in pace, che vorrebbe una quotidianità lontana dalle luci della ribalta e fatta di normalità. Chi crede che la valle sia ormai diventata terra di conquista per filibustieri e terroristi di primo pelo si sbaglia di grosso, perchè in prima linea ci sono agricoltori, lavoratori, cittadini e sindaci. Ci sono donne e uomini che portano serenamente in campo la loro terza età senza curarsi di chi li vorrebbe a borbottare davanti la televisione, ci sono trentenni cretinetti che di mestiere arano la terra alla faccia del posto fisso in banca o nella grande azienda e della sua sicurezza economica.
C'è un universo talmente ampio di "cose che non tornano" rispetto a eventi più noti, il 15 Ottobre per dirne uno, che considerare tutti black block diventa una difesa rassicurante per le nostre convizioni e una pista facile da seguire per chi deve scrivere articoli dietro articoli senza preoccuparsi di capire quello che racconta.

In Val di Susa si sta combattendo contro la tentazione da sempre insita nell'uomo di lasciare una propria firma nel futuro. Nella contestazione che è diventata il simbolo della lotta a tutte le grandi opere millantate da decenni di politica burina e populista, si sta mettendo in discussione l'idea - di stampo fortemente cattolico - che il futuro saprà, per capacità imperscrutabili a noi che viviamo il presente, rimettere a posto tutto e redimere i nostri peccati con il ricordo e la riconoscenza.
Non importa se la Tav ci imporrà un dispendio di risorse economiche che non ci possiamo permettere, non importa se non avremo di cosa riempire i container da spedire in Francia a 300 all'ora, non importa se dovremo scavare montagne senza sapere dove stipare quello che ne tireremo fuori e neanche se dovremo farlo con cantieri dove muoiono centinaia di persone ogni anno, tanto si curano della sicurezza dei laviratori, no.
Tutto questo non importa, perchè la Tav sarà un altro simbolo della potenza della nostra civiltà, l'ennesimo lusso futurista destinato a diventare un monumento all'incompiuto, ettari di boschi sacrificati sull'altare delle lamiere per dar corpo al sogno dell'Europa unita, potente e indissolubile che nel 2012 decide scientemente di lasciar morire di fame un intero popolo qualche parallelo più a sud.

A chi accusa i NoTav di essere retrogradi, passatisti e contrari al progresso, poi, non si manchi mai di ricordare che la nozione di sviluppo come sommatoria delle tonnellate di cemento elevata ai chilometri quadrati di asfalto non sta più in piedi, ed è attuale come il vecchietto avvinazzato del bar che tra un mano di briscola e l'altra non perde occasione di rimarcare che ai suoi tempi mica ti rompevano i coglioni se davi due schiaffi a quella troia di tua moglie.

Essere un NoTav non vuol dire essere un ambientalista, un anticapitalista o un ribelle ma tutte queste cose insieme e anche di più. Vuol dire affermare la necessità di ripensare interamente il nostro modello di sviluppo.
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quello che abbiamo scordato


Potrà anche non interessarvi, posso capirvi, ma la scelta di tenermi fuori dalla disputa morale su liberalizzazioni ed evasione fiscale che imperversa in queste settimane è stata per me profondamente ponderata. Sebbene io non abbia creduto neanche per un secondo nelle porprietà taumaturgiche del libero mercato - e, in effetti, sarebbe anche ora di bollare definitivamente come anacronistico il concetto della Invisible Hand che Adam Smith descrisse ormai 236 anni fa, in altri tempi e in altri contesti, e lasciarcelo finalmente alle spalle - e coltivi un'avversione viscerale verso lo stato liberista, credo fermamente che la critica su questi argomenti abbia bisogno di staccarsi un attimo dalla realtà fattuale per diventare più sistemica e profonda.

Il vizio del capitalismo è infatti ontologico: non si può basare un sistema sull'assioma della massimizzazione del profitto e poi negare a tutti i soggetti che quel sistema lo subiscono di goderne appieno. Non si può pretendere che questo assioma venga addirittura considerato come parametro di professionalità, impegno ed efficienza per alcuni soggetti (penso alle SpA, ma non sono le uniche) e sia, contemporaneamente, indice di corruzione morale per tutti gli altri. Dobbiamo accettare che, viste in questa prospettiva, le resistenze lobbistiche e i tentativi di escapologia fiscale sono strategie previste dalle regole del gioco.

Voglio aggiungere poi che le critiche mosse da chi si dimostra ostile, per forza o per amore, alle questioni di cui sopra nascono pur sempre, nella larghissima maggioranza, da rivendicazioni di tipo economico, che ai miei occhi rimangono sempre e comunque esecrabili perchè partono da una visione individuale e pragmatica che non permetterà mai di sviscerare a fondo l'argomento, di confrontarsi su di esso con la serenità e l'onestà intellettuale (ammesso che questo termine significhi ancora qualcosa) che ogni scambio di opinioni meriterebbe.

Quello che abbiamo scordato, in ultima analisi, è la capacità di osservare i fenomeni in prospettiva. Abbiamo scordato come si guarda la Luna, barattando questa capacità con un modesto mucchietto di inutili nozioni che ci lasciano il contentino di disquisire giornate intere su come e quanto sia incarnita l'unghia del dito.

Io continuo a pensare che ogni problema sia figlio della tanto onorata madre Competizione, e che potremo salvarci solo abbandonandola in un angolo di un vicolo buio per incamminarci nella strada della Cooperazione. Pena la morte della civiltà per come la pensiamo da secoli.
Basta fare i ricercati, è ora di cominciare a parlare chiaro.
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libero software in pessimo Stato

Leggo con apprensione un commento di Elio Gullo, direttore dei sistemi informativi di Enpals-Inps, sulla questione dell'utilizzo del software libero nella Pubblica Amministrazione, uno di quei tanti temi talmente semplici da capire nella loro ragionevolezza da non essere mai presi seriamente in considerazione.
Il direttore dice:

"Come direttore dei sistemi informativi, se qualcosa va storto devo potermi confrontare con un mio pari grado dal lato fornitore che risolva il problema e risponda eventualmente dei danni. Se il mio fornitore sono 10.000 sviluppatori sparsi per il mondo, con chi dovrei parlare? Pagare le licenze, insomma, significa comprare anche garanzie"

Sono veramente spaventato dal fatto che un direttore di una divisione informatica di una delle più grandi aziende del nostro paese possa avere una concezione di rapporti produttivi ancora così retrograda, capace unicamente di perpetrarei modelli passati (già dimostratisi ampiamente fallimentari, tra le altre cose). Non c'è bisogno di ricordare che la battaglia sul software libero va ben al di là della mera contabiizzazione dei costi statali o dell'efficienza tecnica, andandosi ad inserirsi in un impianto teorico molto più ampio in cui sono comprese tutte le battaglie di resistenza e civiltà che vengono proposte negli ultimi anni, a cominciare da quella sui beni comuni; ma vale la pena ricordare al megadirettore in questione che con il software libero - pensate un po!- non ci sarà più bisogno di un fornitore. Che magari, caro megadirettore, la scusa buona per rompere la struttura classica (e anche un po' classista) della filiera produttiva, che per noi semplici cittadini è tutto fuorchè un dogma, potrebbe venire proprio dalle macchine! Quale sorprendente vendetta della storia sarebbe questa, caro il mio megadirettore!

Fonte: L'Espresso.
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Il Mondo Nuovo


Nonostante questo progetto abbia appena quattro/cinque anni di vita, Il Teatro degli Orrori non è certamente un gruppetto liceale formato da ragazzini esaltati, e di conseguenza i componenti si sono resi subito conto che intitolare questo nuovo album "Storia di un immigrato" sarebbe stato un grosso errore. Avrebbe portato tutta una serie di paragoni fuori luogo con l'immenso Fabrizio de Andrè sviando l'attenzione dei contenuti proposti. Perchè siamo fatti così, noi pseudointellettuali che scriviamo (anche solo saltuariamente) di musica: sempre all'affannosa ricerca di citazioni e rimandi storici per tentare di nascondere la scarsa capacità di lettura e analisi dei contenuti.
Lo stesso antico vizio che esprimeva Jorge da Burgos ne Il Nome della Rosa quando affermava: "non c'è progresso nella storia della conoscenza, ma una mera, costante e sublime ricapitolazione".
Ecco, i Nostri erano coscienti di questo rischio ma hanno comunque deciso di chiamare il loro album Il Mondo Nuovo.
Certo, Aldous Huxley è un paragone molto meno ingombrante di Faber per ambito artistico e lontananza geografica, fatto sta che in questa settimana si sia parlato molto più di Brave New World che del disco in sè, come se di ciccia sul fuoco non ce ne fosse.
E invece ce n’è e anche parecchia. Il Mondo Nuovo è un concept album sul tema dell’immigrazione raccontato attraverso le storie e i nomi di alcuni immigrati. Coerentemente con questa impostazione scompaiono dall’album le sfuriate rock dei due magnifici predecessori, si alleggeriscono le chitarre e rallenta la sezione ritmica. Non si vive più di singoli momenti esplosivi o intimistici ma di un unico movimento, che perde di senso se sezionato, dove la musica diventa il palcoscenico dal quale Capovilla recita i suoi ricchissimi e sempre pregevoli testi.
Le melodie dilatate hanno poco a che fare con quelle più tirate e incisive cui ci aveva abituato la band veneta, ma questo non impedisce loro di regalarci dei momenti di intensità difficile da trovare in giro (NIcolaj su tutte; Ion, canzone per la quale è stata chiesta l'autorizzazione alla pubblicazione alla moglie dell’omonimo operaio; Vivere e morire a Treviso, almeno per me molto rappresentativa) e qualche episodio dall’incedere più sostenuto (Martino e il singolo Io Cerco Te).

Il Mondo Nuovo è un album complesso, che richiede tempi di digestione ancora più lunghi di Dell’Impero delle Tenebre, e molto coraggioso, perchè ci sfida ad ascoltare e riflettere senza fretta a proposito di un tema delicato che viene trattato sempre con troppa fretta dalla politica (nord)italica, preoccupata più di non scontentare le spinte emozionali (schèi) del popolino che di formare una coscienza civile al riguardo.
I pregi, però, finiscono qua. Questo album ha il grosso difetto di essere dominato e deformato nella sua struttura da un Capovilla eccessivo che dà l'impressione di non riuscire mai a farsi da parte, neanche per dare il tempo alle melodie di uscire dal bozzo e compiersi fino in fondo.
A mio avviso un mezzo passo falso.