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2010: tanta roba



Non è mica vero, era solo per attirarvi con un titolo che lasciasse un po' di mistero sull'argomento. Per un pensierino però il tempo lo voglio trovare, perchè un anno di Veneto di stronzi me ne ha fatti incontrare tanti (comunque meno di quanti ne avessi previsti) ma sarebbe ingiusto riprendersela con loro.
Io ce l'ho con chi guarda Annozero una volta al mese e poi grida fascista al governo; ce l'ho con chi ascolta Saviano raccontare le sue storie e poi piange lacrime false come i lineamenti di Ray Lovelock per le vittime della camorra.
Fedeli al vangelo secondo Beppe che poi ti vengono a raccontare con atteggiamento messianico, perchè lo scopo è convertire e mai comprendere. Atei con il dogma della legalità.
A testa alta finchè torna il capo, quello grosso, e pugno alzato fino alle 16:30 ché finisce il rientro dei figli alla scuola privata.
Compagni per una sera, intolleranti griffati di rosso.
O partigiano, lasciali qui.
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432 km

Ti metterai in macchina sbuffando, perchè sai che la strada è lunga, che hai le ore contate e che ti toccherà fare almeno una sosta fisiologica negli autogrill che tanto detesti. Ti chiederai: ci sarà qualcuno in grado di arrivare a destinazione senza soste? Ebbene sì. Qualcuno ce la fa. Ma tu non provarci la prima volta.
Sali in macchina e sei dentro la città, e sarebbero dolori per te se non fosse domenica pomeriggio, perchè con il traffico dei giorni feriali potresti impiegare mezz'ora solo per prendere la superstrada. Invece tu hai scelto il giorno giusto e in attimo sei là, in perfetta traiettoria per andare ad intercettare la A14 a Chiaravalle.

Prima di lasciare l'Appenino risalendo il fiume Esino lungo la ss76 adriatica, non mancare di osservare i costoni di roccia nuda sopra i trafori della strada, immagine che non vedrai più per tutto il viaggio già a partire dall'entrata nella Gola della Rossa, dalla quale le Marche cominciano a distendersi verso l'Adriatico, seppure in modo irregolare e con molta calma.
Arrivare a Chiaravalle ti colpirà dritto allo stomaco. Ti sbuca dal niente una lingua d'asfalto che solo a pensare quanto sia lunga ti viene la nausea. Purtroppo essa è anche l'unica strada comoda per arrivare dove devi in mezza giornata scarsa.
E per quanto non perde mai d'intensità la vista della costa e del mare tra Senigallia e Marotta, non riesci proprio a scordare che, dove sei tu ora, prima c'era solo un fitto bosco, e a farti sentire meno in colpa non ti aiutano certo le ruspe meccaniche e i cantieri aperti che spuntano come funghi ai margini della strada.
C'è solo un tratto, uno solo tra l'uscita di Fano e quella di Pesaro, pieno di saliscendi e curve, che, se preso ad una velocità leggermente superiore a quella di crocera, diventa talmente divertente da guidare che si fa quasi perdonare di essere un'immonda ferita grigia tra le verdi colline che nel giro di pochi chilometri daranno vita alla Romagna.

Tra Riccione e Rimini Nord la spartizione delle frequenze dell'etere è stata fatta un po' alla cazzo di cane, di conseguenza Virgin Radio, Radio Italia e R-101 si sovrappongono creando un sottofondo fatto di crepitii e voci dall'oltretomba, rendendo oltretutto impossibile l'ascolto delle singole stazioni. In compenso, dopo Rimini Nord la strada si allarga acquisendo una terza corsia, e comincia ad allontanarsi piano piano dalla costa per correre incontro alla pianura. Ormai gli Appennini sono lontanissimi, e l'orizzonte si allarga così tanto che ti fa quasi male agli occhi. Per vedere le prossime colline bisognerà rivolgere lo sguardo in direzione della Toscana e aspettare Imola, anche se esse diventerano degne di tale nome solo alle porte di Bologna.
A vederlo in movimento, questo agglomerato di campi coltivati adiacenti non ti sembra offrire riparo o protezione nè al viaggiatore nè agli abitanti. Gli alberi sono talmente pochi che non troveresti neanche un posto dove ripararti, se cominciasse a piovere all'improvviso.

Il raccordo di Bologna, o almeno la parte iniziale, cioè quella che va da San Lazzaro all'uscita di San Donato, è talmente brutto che potrebbe piacere solo ad un ingegnere appassionato di schemi e matrioske. E' sviluppato in modo concentrico e pare così tanto impiantato tra gli edifici da sembrare un enorme polpo gigante impazzito che ha deciso di occupare la città. E così, mentre imbocchi la A13 verso Padova, non stai verramente correndo sull'asfalto drenante dalle sfumature sabbia, ma su uno dei suoi tentacoli, precisamente quello che punta a nord/nord-est e che la creatura gigante ha distesto per andare ad aggrapparsi ai colli euganei, anomalia veneta della pianura padana.
E' esattamente qua che il tuo cervello smette di pensare, provato com'è dalla monotonìa di 250 km circa di strada quasi dritta.

Se percorri il tratto dopo l'uscita di Ferrara Nord di notte, puoi provare una strana sensazione di smarrimento. Dopo l'uscita infatti, e per una piccolissima manciata di chilometri, al di fuori della segnaletica stradale posta sopra e ai bordi delle carreggiate non c'è nemmeno una luce. Non una lampadina di un rustico abitato nè quelle di una cascina di campagna, non un lampione nè i fari di qualche auto che percorre una mulattiera tra i campi. Solo oscurità, buio completo. Sembra di tuffarsi nel nulla, e ti viene naturale affondare il gas per andare a vedere come va a finire. Purtroppo il gioco finisce subito: il ponte che scavalca il Po ostenta, sulla punta più alta della parabola che disegna a mezz'aria, il cartello che reclama il confine fra Veneto e Emilia-Romagna. Una volta arrivati là, nelle campagne intorno Occhiobello, si cominciano a scorgere palazzine illuminate, adibite probabilmente a ospitare uffici aziendali di ditte locali, e così tutto torna bruscamente meno spettrale e misterioso e, al tempo stesso, molto meno affascinante.
Proseguendo l'autostrada fino alla fine si arriva a Padova, dove inizia quel dedalo infinito di acciaio e cartelloni verdi che è il suo raccordo. Forse avrai avuto la sfortuna di capitare a Roma o Milano in macchina, o forse solamente su raccordi meno caotici e aggrovigliati, ma un simile delirio curvilineo non te lo scorderai più.
In un contesto del genere non ti sarà facile trovare la strada che risale dritta a nord verso la palude Castelfranco, prima di virare leggermente a nord-ovest per andare a lambire le prealpi venete fin dentro Bassano del Grappa. E' una strada a scorrimento veloce che non soffre particolarmente il traffico, fatta eccezione per alcuni tratti urbani, e solo quando arrivi a Resana, dove la strada ritorna una modesta statale a singola corsia per senso di marcia, il cartello che delimita la Provincia di Treviso ti fa capire quanta strada hai fatto. Sei alla stessa altezza di Milano adesso, la tua cavalcata sta raggiungendo le quattro ore (al netto della sosta) se il traffico non è stato troppo denso, le palpebre sono pesanti perchè è da dopo Cattolica che nel paesaggio cambia solo la tonalità di verde.

Quando sarai arrivato a destinazione ti faranno male le gambe. Non come se te la fossi fatta a piedi certo, ma lo stesso ti faranno male, e per tutto il resto della giornata non farai che stiracchiarle non appena ne avrai l'occasione.
Sei a destinazione.
Forse.
Ma finchè ti riterrai un nomade, avrai salva la vita.
Finchè avrai la forza di non comprarti una casa con sistemi di allarme per renderla sicura ed inespugnabile come una prigione, non avrai ancora scordato che sarai tu stesso a doverla abitare.
Finchè non firmerai un mutuo opprimente come un burqua per acquistare un maledettissimo suv, per percorrere i dieci chilometri che ti separano dall'ufficio, potrai guardarti allo specchio con sufficiente onestà.





ndr: vedi cosa succede a passare un Venerdì sera a parlare del successo editoriale improvviso dei travel books!
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Il mondo che vorrei

Sandro Bondi, per amici e parenti Sandrobondi, nasce a Fivizzano, provincia di Massa-Carrara, e comincia la sua carriera politica nelle file del Pci. Certo una scelta netta la sua, ma comprensibile se si considera il contesto culturale della rossa toscana dei primi anni ottanta. Un giorno, mentre si stava recando al lavoro, gli cadde una tegola in testa, e da quel momento cominciò a non imbroccarne più una. Dal maggio 2008 il buon Sandro di mestiere fa il MInistro dei Beni e delle Attività Culturali, e di questa cosa si bèa. Visto che ora amministra tutto lo scibile umano, ha saggiamente deciso di smettere i panni da pazzo invasato del mago Otelma, coi quali era solito allietarci le domeniche pomeriggio, per indossarne di ancora meno seri. Ha pure scritto tante poesie, Sandro, e le ha raccolte in un libro, anche se il dramma vero è che le ha poi pubblicate. Il libro si chiama Perdonare Dio e io ancora non me ne capacito. Nonostante il titolo affatto pretenzioso, la raccolta è bella. Talmente bella che lo sarebbe stata di più solo se non fosse mai stata scritta, ma ormai c'è e e ve la dovete tenere. Vi rimane la possibilità di non comprarla ovviamente, a meno che non siate suoi parenti. Nel mondo che vorrei Sandro Bondi non sarebbe un uomo, bensì una maschera di carnevale: Il Cicisbeo o Cavalier Servente, "con quello sguardo un po' così, quell'espressione un po' così".
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De Bello Fallico


Il clone di Minzolini (questa foto lo testimonia) fino ad un anno fa non esisteva, poi venne il Natale e ad Augusto un regalino toccava pure farglielo. Certo, anche lui non si aspettava in dono un altro telegiornale, ma qualcosa di più utile sì,
Comunque il buon Alessandro Sallusti, nonostante fattezze e lineamenti piuttosto generici, da clone appunto, si distingue subito per la passione con cui sceglie e sostiene le proprie battaglie, con quel fare sanguigno e quell'espressione indecifrabile tendente al crucciato.
Non si dà pace Alessandro, perchè non ha un passato e questo gli brucia, ma adesso ha un giornale anche lui, o per meglio dire ha Il Giornale, famoso quotidiano dalla tiratura nazionale e dall'azionariato diffuso.
Non si dà pace e gira per tutti i programmi televisivi possibili e immaginabili a parlare di immobili sparsi qua e là nel mondo e della loro proprietà, senza paura di esporsi al fuoco incrociato del nemico, che ogni volta lo sovrasta per numero e per vocaboli conosciuti .
Cos'è che spinge quest'uomo-clone a difendere così intensamente un uomo-cane e la sua ventina di megaville sparse per il mondo?
Cos'è che spinge un giornalista a svilire la propria persona costringedosi a parlare solo di proprietà e certificati d'acquisto?
Carlo Alessandro, so anche io che il capo è tornato single, ma per quanto tu possa provare non sarai mai viscido come Fede, succube come Bondi, genuflesso come Minzolini (neanche gnocca come Ruby, a dirla tutta), quindi "accetta un coniglio": lascia perdere ché non ti fa bene.
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Cronistoria di un uomo minchia


Sergio Marchionne (qui fedelmente ritratto in quanto situata in mezzo ai coglioni) nasce a Chieti nel 1952, ma si sposta in Istria perchè gli abruzzi gli vanno subito stretti. Poi, ancora bambino, lascia l'Italia per trasferirsi con la famiglia in Canada.
In quella casetta piccolina in Canadà, con tante roselline e tanti fiori di lillà, il ragazzo-Sergio dimostra ad ogni anno che passa di essere un buon cervello, infilando uno dietro l'altro titoli di grande prestigio: laurea in legge, un MBA (Master in Business Administration) e una laurea in filosofia, che giurerà poi, in una breve intervista al giornale locale Canad-air, di aver buttato nel cesso e di aver tirato la catena forte forte.

Dopo gli studi, l'ometto-Sergio dimostra anche intraprendenza, e forte dei roboanti titoli conseguiti entra di petto nel mondo economico andano ad occupare posti di responsabilità prima e di dirigenza poi, in grandi aziende con marchi conosciuti in tutto il mondo. Tale processo culminerà con la nomina di amministratore delegato del gruppo SGS, multinazionale svizzera con sede a Zurigo, che lo consacra definitivamente nel Gotha del management mondiale, e lo riavvicina a casa.

Dagli studi canadesi ha imparato a non portare la cravatta, dalla sua vita lavorativa ha tratto l'esperienza, e conscio di questa sua completezza l'uomo-Sergio viene nomnato nel 2004 a.d. del gruppo Fiat.
L'anno successivo assume anche la guida di Fiat Auto.
Qualche mese più tardi viene investito del titolo di Signore Onnipotente Degli Autoveicoli Tutti, ma non vuole che si sappia troppo in giro.
Dopo i vari tentativi di indebitare ulteriormente l'impresa privata più indebitata d'Italia, con l'acquisto a rate del gruppo Chrysler e la tentata ma non riuscita scalata alla Opel, Marchionne decide di fermare la sua strage per un attimo. Poi ci ripensa, si guarda dentro, e ordina ai suoi scagnozzi di chiudere Termini Imerese licenziando i 2000 operai ce ci lavora(va)no, e di ridimensionare altri stabilimenti storici del gruppo nel sud del nostro paese.

Dal 2008 il suo hobby preferito è lanciare ultimatum al governo italiano, rivendicando un risanamento dei conti dell'impresa automobilistica e un rilancio della cultura italiana nel mondo, operazione quest'ultima alla quale ha contribuito in modo decisivo il sobrio e posato Lapo Elkann, rampollo della famiglia Agnelli per una serie di sciagurate coincidenze .

Una carriere velocissima la sua, talmente frenetica da non lasciargli mai un momento libero o di spensieratezza, neanche per andare qualche giorno ad Amsterdam a contare tutte le auto che non ci servono ma che ci hanno conivinti a comprare, o per passare qualche ora davanti la cartina geografica italiana a capire perchè si sia voluto sviluppare il commercio stradale in un paese fatto a grissino e circondato dal mare.
E' così impegnato, Sergio, a dirigere i colossi economici che amministra da dimenticarsi di contare tutte le vite perse sulle strade, che sono il vero prezzo che questa Italia paga ogni giorno al mercato delle autovetture e in particolare alla Fiat.
Bravo Sergio, ghimmifaiv.
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Tiziano Ferro è gay, parlatene


Nel 1990 uscì Wind of change, una delle ballate hard-rock più famose e patinate della storia, scritta in occasione di e divenuta simbolo del e tante altre cose bla bla bla. Io ho avuto la fortuna di avere così pochi anni nel 1990 da riuscire a scamparmela e di conseguenza, anche se gli anni '80 erano ancora addosso e dentro gli adulti intorno a me, non me ne sono accorto troppo. Nel 2010 esce il nuovo disco degli Scorpions e c'è ancora chi si è preoccupato di andarselo a comprare (comprare?) e più di una stazione radio a copertura nazionale che li trasmette senza vergogna. Ancora qualcuno che sbava dietro a chi ha da dire nulla e lo fa anche in modo insopportabile. Già, gli Scoprions, quelli che suonano la stessa canzone da vent'anni e poi la incidono su dischi ugualmente rotondi ma con copertine diverse.
Chiamate Bin Laden prima che tornino anche i Van Halen e compagnia brutta.
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Quando sembrava che tutto andasse in pezzi, a me non sembrava affatto

Nella mia casa precedente, che era poco più che un tugurio umidiccio e loffio, non avevo uno specchio, neanche uno e neanche al bagno. Questo non mi portava particolari turbamenti, potevo infatti specchiarmi ovunque volessi in giro per la città: le vetrine dei negozi, soprattutto quelle del corso centrale sempre lucenti e nitide, i bagni dell'università e perfino il polimetilmetacrilato (lo sapevate che plexiglass è una parola che non esiste, una parola commerciale? Nel dizionario delle advertisement words è infatti seguita dalla erre cerchiata: il simbolo del marchio registrato) della fermata del pulman mi tornavano molto utili a questo scopo.

Una sera però, tornando a casa da una cena faraonica tirata su con 4 scellini e maglie intrise di farina e sudore, trovai uno specchietto di una macchina a terra davanti al portone di casa. Strano, pensai, visto che di solito davanti a quel portone stazionavano solo incredibili deiezioni canine, barboni con la sottomarca del tavernello in mano e/o (le opzioni infatti non si escludevano a vicenda, anzi) qualche punkabbestia intento a lanciare e perdere la sua personale sfida alla forza di gravità.

Lo presi in mano, la plastica era perfettamente integra, al contrario del vetro che era irrimediabilmente spaccato lungo linee sghembe in parti diversissime fra loro. Aveva un che di strano e affascinante.
Non so per quale strana associazione di idee, ma decisi in quel momento che da quella sera avrei avuto anche io uno specchio, o meglio un orpello in pieno stile garage-punk surrogato di uno specchio.

Non fu facile appenderlo, non avevo infatti nè chiodi nè martelli in quella casa decisamente poco accogliente. Per fortuna avevo e ho un amico che si divertiva come un bambino a smontare e rimontare computer e laptop e tutto quello che fosse rettangolare e piccolo e pieno di lucette accattivanti. Era un clocker, ovvero coloro che "pimpano" i computer aumentandone il voltaggio e l'amperaggio e altri -aggio e farcendoli di neon colorati agganciati a ventole giganti in pieno stile fast and furious. Egli si definiva un "overclocker", per sottolineare come non fosse un clocker qualsiasi, mentre io lo chiamavo "l'albanese dei computer", il buon vecchio panzer, e questo non l'ha mai digerito, anche se ogni volta fingeva di sbellicarsi dalle risate. Diatribe dialettiche a parte, ho questo amico e ai tempi mi abitava anche abbastanza vicino. Grazie a lui rimediai chiodini e piccole viti, decisamente poco adatte a perforare canterti, ma era quello che passava il convento, o collegio, per meglio dire: il collegio studentesco. Del come entrai in possesso di un martello non starò qui a dirvi, non mi pare il caso.

Alla fine riuscii a conficcare in modo sufficientemente stabile uno di questi chiodini al muro, esattamente sopra il lavandino, come nelle case vere. Legai un'estremità di un elastico al perno dello specchietto che fino a qualche giorno fa lo collegava alla macchina, l'altra la fissai al chiodo con un nodo piano, reggendomi in fragile equilibrio sui bordi della vasca da bagno.
Mi piaceva da matti guardarmi lì. Quel pezzo di vetro rotto sapeva frammentarmi e destrutturarmi meglio di quanto la mia immaginazione avesse mai spauto fare. Ogni singola scheggia mi rifletteva con una luce e con un'angolazione diversa. Vedevo così il naso decisamente più grande della bocca, l'occhio destro due o tre vole più luminoso di quello sinistro e il collo che si attaccava a quarantcinque gradi alla testa. I lineamenti del viso erano ricomposti secondo uno schema nuovo. Insomma, c'erano tanti pezzi del mio viso e tanti modi per metterli insieme.
E mi piacevano tutti.

Quando lasciai quella casa fui felice, in fondo non aveva la caldaia e non aveva il forno, due elementi essenziali per la vita di un qualsiasi studente condannato a tirare a campare per ogni giorno della sua gioventù. Solo una cosa cominciò a mancarmi dopo qualche settimana. Non me ne accorsi subito, perchè in fondo si trattava di un dettaglio, di un oggetto piccolo in dimensioni e in importanza, avuto per caso oltre tutto.
Cominciai a sentire la mancanza di quel vecchio specchietto rotto, nero nelle plastiche e nelle crepe della superficie riflettente. Cominciai ad averne nostalgia perchè sapeva farmi vedere diverso ogni mattina e ogni pomeriggio, e perchè mi permetteva di focalizzare l'attenzione su alcuni punti piuttosto che altri. Una messa a fuoco mirata e più precisa.
Ora invece, nel mio bellissimo specchio ad ampia metratura contornato di lampadine bianche e tonde, vedo solo un'annoiata faccia smunta a cui non darei neanche un soldo di fiducia. La stessa faccia che comincia a farmi mediamente schifo tant'è piatta e scontata e banale.

Mi sembra che tutto vada in pezzi, ora che ne vedo sempre e solo uno solo.
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Venti minuti

Mio padre è morto dopo 54 anni complicati e un nome difficile da portare come un sorriso mai segnato da dubbi. Non andavamo d'accordo. Invecchiando trovo in me particolari di lui alla mia età di adesso: qualche segno delle mani, un'espressione allo specchio, un tono di voce.
Questa cosa non mi piace per niente.

Da quando se ne è andato ho un'eredità natalizia: aveva un amico, un milanese conosciuto al servizio militare in Friuli nei loro vent'anni.
Era l'inizio degli anni sessanta e devono essere stati momenti di grande condivisione e scoperta del mondo. Questo tizio io l'ho visto solo due volte, da bambino. Gente che aveva più borghesia e più boria di noi.
L'ho rincontrato, quell'amico lontano, solo davanti al letto di mio padre morente. Da allora quell'uomo ha deciso che io sono mio padre.
Ogni anno, la vigilia di Natale, chiama. Parla con me venti minuti di cose che non so e di un periodo in cui non ero ancora nato. Ha il tono cameratesco che usava con lui e si sbaglia perfino a chiamarmi per nome. Mi dice "ti ricordi quello lì?...quella là?..." esattamente come fossi lui.

Non ho mai condiviso le scelte di mio padre. L'ho odiato cordialmente da sempre. Ora che non c'è più sono sereno, ho risolto le cose che avevo in sospeso.
Ma ogni anno sento una voce che parla di lui come una persona meravigliosa e ne parla come non ne ho mai sentito parlare. Non lo riconosco in quelle storie di amicizia durata oltre la naturale scadenza. Resto in silenzio davanti alla devozione di un signore che mi è estraneo e che chiama ogni tanto da molto lontano e per pochissimo tempo.

E' una devozione che non è nemmeno paragonabile alla mia, che è quasi assente. Venti minuti. Non uno di più. Anche stamattina.
Parla, racconta, quasi piange. Si congeda e mi chiama col suo nome, poi si corregge.
Mette giù. Non era con me che voleva parlare.
Non era di me che aveva bisogno.
Mio padre per tanto tempo mi ha telefonato solo una volta all'anno, la vigilia di Natale.
Era l'unico gesto che si sentiva di fare nei miei riguardi, vista l'evidente ostilità che gli riservavo.
Quella telefonata, fatta da nove chilometri, freddi e distanti quanto lo stretto di Bering, gli costava molto, ma non se la negava mai. Un punto d'onore.

"Ciao figlio, tuo padre sta bene. Fatti sentire ogni tanto. Come sta tua madre? Valla a trovare. Almeno lei. Ciao figlio, buon Natale"

Per uno come Metuccio, doveva essere uno sforzo grandissimo.
Ultraterreno.
Talmente grande che ancora non si è esaurito del tutto.


offlaga disco pax - venti minuti
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Vicissitudini dissociate

Roskilde è una città situata in terra di Danimarca poco distante dalla capitale Copenaghen. C'è un festival musicale omonimo che si svolge in quella zona ed è enorme e la più vecchia manifestazione di questo tipo di tutta Europa. Di solito dura dai tre ai quattro giorni, ci sono diversi palchi attivi in contemporanea, vengono proiettati film e viene dato spazio a tutte quelle attività a sfondo artistico che nel mondo anglosassone sono racchiuse nel termine performance-arts, ovvero ritratti in tempo reale, body painting alle volte, letture di poeti più o meno discutibili, contest di writers su canterti montati ad hoc e destinati, con tutta probabilità, a finire in qualche cantiere edile una volta smontato il circo.

Un allegro fast-food della cultura moderna insomma.

Tutte le bands più famose delle ultime decadi sono passate per là, magari iniziando da qualche palco minore fino ad arrivare al main stage, qualcuno addirittura da headliner, come a sancire un passaggio ufficiale nel mondo di quelli che contano, la conquista del successo mondiale. Processo che è slegato, inutile dire, dalla maturazione artistica o dalla validità della proposta, ma i biglietti non si vendono suonando i bonghetti, mi farebbe notare la Mara Maionchi di turno arrivati a questo punto in una ipotetica discussione a quattro occhi.
Nella trentesima edizione, esattamente in data 30 Giugno 2000, stavano suonando i Pearl Jam. Durante tutto il concerto, come durante ogni concerto, tutta la folla premette per fare qualche passo avanti e per avvicinarsi al palco. Tutti volevano arrivare alle transenne, guardare negli occhi Eddie Vedder e soci. Chi era già sulle prime file si preoccupò invece di contrapporsi all'onda umana per ricacciarla indietro e non perdere la propria posizione privilegiata e conquistata a fatica. E' un gioco rituale durante qualunque concerto, e diventa incontrollabile in eventi di questa portata. A complicare le cose ci si mise però il mal tempo. Pioveva infatti, e la pioggia rese fango il manto erboso, il fango rese precario l'equilibrio di tutti. Ad un certo punto il giochino si ruppe: una trentina di ragazzi in prima fila scivolarono a terra, non riuscirono più a rialzarsi, finirono calpestati e schiacciati contro le transenne. I muscoli che erano riusciti nell'impresa di portarli davanti a tutti non riuscirono in quella di sorreggerli fino alla fine, di proteggerli dal centinaio e oltre di migliaia di persone che spingevano come fossero un corpo solo. Cinque morirono sul colpo e il concerto fu immediatamente fermato. Dopo poche ore fu comunicata la morte di altri quattro ragazzi. I feriti furono una ventina in tutto, nessuno in pericolo di vita ma di certo la faccenda non si concluse con pacche sulla spalle e un arrivederci alla prossima.
La notizia fece il giro del mondo in pochi giorni, molti giornali puntarono il dito sull'abuso di droghe e alcool che ad ogni manifestazione del genere porta la situazione generale sempre sul punto di rottura, altri invece se la presero con la pessima organizzazione del festival: vie di fuga inesistenti e un rapporto security/spettatore troppo basso i principali capi di accusa. Alla fine tante colpe e nessun colpevole, ma questo evento segnò profondamente la carriera dei Pearl Jam e le loro vite. Passarono anni prima che tornassero ad accettare nuovamente di suonare in eventi di tale portata, e nell'album Riot Act, uscito due anni dopo la tragedia, decisero di dedicare alle nove vittime due pezzi: Arc e Love Boat Capitain.


Mestre è una città come tante. Tutte le volte che ci sono passato in treno non sono mai riuscito ad uscire dalla zona intorno alla stazione, spaventato com'ero dal groviglio di lamiere e insegne colorate appiccicato alla meno peggio sugli edifici circostanti. Mestre è uno dei tanti cimiteri di asfalto e cemento dove l'uomo moderno ama seppellirsi. Magari mi sbaglio, ma non credo, o sicuramente anche se sbagliassi non lo farei di molto. In effetti non conosco molto della storia di questa città, di tutte quelle vicende che l'hanno portata ad essere esattamente uguale a tutte le altre grandi città italiane, fatto sta che anche nella sua insignificanza è a loro uguale: non lo è di più, non lo è di meno.
Ad ogni modo, nel 2004 a Mestre venne inaugurato il Parco San Giuliano. Un enorme polmone verde a ridosso della laguna con vista su Venezia, una macchia di colore dove riaprire finalmente gli occhi e riposare le orecchie dal frastuono della vita quotidiana. Data la location decisamente suggestiva del posto, si decise tre anni dopo di spostare là l'Heineken Jammin' Festival, che nelle edizioni precedenti aveva trovato sede fissa nell'autodromo di Imola. L'Heineken è una delle più grosse manifestazioni-baracconate musicali italiane, seconda solo al Festivalbar per qualità della materia prima e al Pistoia Blues per età media dei musicisti (anche se vorrei che questa ultima osservazione non venga messa a verbale, non ne sono affatto sicuro). Nonostante tale festival sia, come accennato appena sopra, una vetrina per vecchie glorie in cerca di bagni folla più per malinconia che per esigenza oggettiva, ogni tanto qualcosa di buono lo tira fuori. A prezzi imponderabili, ma lo tira fuori. Sono cose che capitano a furia di sparare nel mucchio.
Per festeggiare la prima edizione nella nuova sede, esattamente nelle idi di Giugno, dovevano suonare su quel palco di quel parco di Mestre i Pearl Jam. Ebbene sì, ancora loro. A poche ore dal loro ingresso in scena una tromba d'aria si abbattè sul San Giuliano però, spazzando e devastando qualunque cosa. Otto torrette dell'illuminazione e degli amplificatori crollarono e 30 persone restarono ferite. Per onor di cronaca, e per mettere a fuoco il dramma nella sua interezza, occorre aggiungere che: in occasione del decimo anniversario del festival era stata programmata una giornata in più alle solite tre, e quel Venerdì era appena la seconda; il festival fu interamente cancellato; quella della sera a venire sarebbe stata l'unica data italiana dei Pearl Jam dell'anno.

Dopo questo secondo incidente legato alla band, si cominciò a pensare che un po' sfiga effettivamente questi cinque ragazzoni americani la portassero, ma soprattutto che se la portassero dietro nei loro spostamenti per l'Europa. E fu così che per anni si diffuse l'usanza, tra i rockers scaramantici, di parlare dei Pearl Jam come si farebbe circa una malattia venerea: raramente, a voce bassa e capo chino, mano ben arpionata ai testicoli.


Montebelluna è una città di medie dimensioni comodamente appoggiata sulla periferia nord-orientale della pianura piadana. Di primo acchito sembra una di quelle città americane della California che si vedono spesso nei telefilm adolescenziali trasmessi principalmente sulle reti Mediaset: un centro storico piccolo e raccolto e intorno solo quartieri residenziali intervellati da spazi verdi piccolini ma curatissimi. Qualche palazzina in centro, ma niente che ricordi l'edilizia di massa dei grandi agglomerati urbani. Difficilmente trovi una villetta senza il suo angolo di giardino e altrettanto difficilmente incontri difficoltà per parcheggiare.
La ragione per cui vi parlo di questa cittadina è che si trova a una quarantina di chilometri, metro più metro meno, da Mestre. Luglio è appena arrivato e con lui anche un'afa intollerabile e l'impossibilità di dormire la notte. Insieme a Luglio sta a arrivando anche l'Heineken Jammin' Festival, sempre a Mestre, sempre al parco San Giuliano.

Sempre i Pearl Jam. Fra due giorni.

Quattro persone in questo momento sono con lo sguardo al cielo per cercare di elaborare una qualche e personalissima proiezione sull'andamento meteorologico nell'immediato futuro. In realtà nessuna di queste quattro persone abita a Montebelluna, ma, per una serie di motivi che non vi sto a raccontare, essa è diventata il loro centro di interessi (in senso lato). Una di queste quattro persone sta scrivendo questo umile post senza alcuna pretesa di eleganza stilistica, e lo sta facendo durante una delle domeniche pomeriggio più calde degli ultimi ventisei anni. Può testimoniarvelo di persona.
Una di queste quattro persone sono io, quindi basta scrivere come fossi un osservatore esterno ché non mi viene affatto naturale e aumenta anzi le possibilità di una mia futura schizofrenia. Mentre sto scrivendo, sudo. In realtà oggi non ho fatto altro. Mentre non dormivo per la temperatura degna di un forno a legna della mia camera, sudavo; mentre non mangiavo per non cucinare, sudavo; mentre respiro sudo e mentre impreco per il caldo atroce, indovinate un po'?, sudo. Solo che, ad un tratto, mentre sudo, sento anche un'eco di tuoni lontani. Non ci sono nuvole in cielo,e figurarsi se ne passasse una per sbaglio con tutto quello che servirebbe in questo momento, ma io riesco distintamente a sentire dei tuoni. In lontananza certo, ma li sento. In pochi minuti viene giù una tormenta dalle proporzioni bibiliche, una quantità di grandine esagerata si abbatte su tutto quello che incontra, picchiando alberi e vetri, schiantandosi contro lamiere di auto e mura di abitazioni. Si alza d'improvviso un vento parente di primo grado alla bora triestina e, tanto per non farsi mancare niente, una quindicina di gradi se ne va senza provare nemmeno a discuterne insieme.

E' in questo momento che comprendo la Verità: l'aereo che porterà i Pearl Jam sul palco dell'Heineken è appena atterrato in Italia.
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O Capitano, mio Capitano


Mentre leggi Q nel millecinquecento ci sei davvero. Lo senti realmente l'odore delle terre umide tedesche, del mare olandese e della laguna di Venezia. Riesci ad odorare il fetore delle bettole dei villaggi, il sangue misto a sudore dei popolani, le urla e le bestemmie delle battaglie sono una eco lontana che diventa frastuono quando intorno hai silenzio.
Non è poi così diversa l'umanità descritta dalla fantastica penna di questo ormai famoso collettivo di scrittori da quella di oggi, stordita e confusa: persa. A tal punto persa da confinarsi dentro labili certezze, valori opinabili e abitudini esecrabili per avere qualcosa a cui aggrapparsi che le dia forza. Affetta da un male esiziale che non esiste se non nelle sue paure.
Non è poi tanto diversa, relativamente al contesto sociale dell'epoca, la rivoluzione portata dalla stampa rispetto a quella portata da internet, soprattutto per le possibilità che portò di formare nuove comunità di discussione (forum), di partorire critiche, di moltiplicare le opinioni educando così all'assenso critico, o al dissenso se necessario.
Come somiglia poi l'impero bancario di Anton Fugger alle odierne Merrill Lynch e Goldman Sachs, tanto vasto da sottomettere anche principi tedeschi e cardinali alla sua volontà, ma che in realtà dipende solo ed esclusivamente dalla fiducia e dalla credibilità che il popolino acconsente a riconoscergli.
Alla fine è inevitabile poi che il Capitano della disobbedienza diventi anche il tuo, perchè man mano che scorrono le pagine ti esalti e ti stanchi e ti rammarichi e risorgi con lui. Perchè era uno innamorato dell'uomo il buon vecchio Gert, non voleva un futuro migliore nell'aldilà, ma un presente giusto subito. Perchè era uno che la vita non l'ha mai passata con lo sguardo verso l'alto ad aspettare un segno, ma a fissare gli occhi dei mille coloratissii personaggi che gli si paravano davanti per capire e conoscere. Vedete, mezzo millennio fa anarchico si diceva anabattista, ma la sostanza era la stessa. Essere anabattisti voleva dire coltivare tutte le emozioni che l'uomo è stato creato per provare, compreso l'odio e il disprezzo per chi come la Chiesa questo lo negava (e continua) e per chi di Chiesa ne voleva un'altra diversa solo nella forma.
Nessuna gerarchia, nessuna superiorità morale, nessuna banca, nessun mercante troppo scaltro e in altre faccende affaccendato.
Q è anche la storia di un uomo fanatico degli uomini e stakhanovista della vita. Un uomo che non ha mai perso senza vincere nemmeno una volta, così carismatico da essere il solo personaggo a tenere insieme tutto questo prezioso affresco di oltre 600 pagine.
Adieu Capitaine.
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Presa diretta

Dopo il terzo gol della Slovacchia l'idea di lanciare il televisore dalla finestra non ci risulta più così distante. Che cazzo, almeno un po' di dignità, per dio!
Scusate lo sfogo. Anzi no, niente scuse.
Il fatto è che ho visto troppe italiette da Usa94 ad oggi per sperare in un brusco cambiamento di rotta pronto a tradursi in un impeto di coraggio e bel gioco. La rimonta non ci sarà, e a questa triste verità sono arreso da subito.
In quanto a MrHare, bè, non so se la sua rassegnazione nasca dalle mie stesse valutazioni storiche o sia dettata solo dall'evidenza dei fatti, ma anche lui non sta certo ad aspettarsi sorprese.
Anche questa volta, dunque, l'Italia del pallone è fuori dai giri che contano, come in Inghilterra all'europeo del '96, anche se là ci aveva eliminato la Germania (sorvoliamo sul rigore di Zola, per favore), mica la cazzo di Slovacchia; come in Portogallo, nel 2004, dove abbiamo meritato in pieno il biscottone Danimarca-Svezia; come due anni or sono, infine, non ricordo neanche dove.
A pensarci bene sono talmente tanti i luoghi dove siamo andati a prendere pesci in faccia che resta difficile fare la conta.

Insomma, visto che non abbiamo più una buona ragione per festeggiare ne cerchiamo subito un'altra e volgiamo quindi lo sguardo all'immediato futuro, come la nazionale appunto. Un giornale, qualche giorno fa, ci ha portato a conoscenza dell'evento di questa sera. Quattro parole in particolare ci avevano colpito: Carbonera (frazione o comune o qualcosa da qualche parte intorno Treviso), Marta sui Tubi, Zen Circus, gratis.

Quindi, finito lo scempio calcistico, facciamo scorrere pochi minuti per una doccia veloce, una birretta d'incoraggiamento, capire chi viene e chi no e siamo in macchina splendidi come sempre. Un meccanismo di scelta dal nome di Algoritmo Casuale, brevettato e maneggiato con disarmante nonchalance da MrHare, decide che sia io a dover guidare stasera, ma il sospetto che quel marchingegno sia tutt'altro che casuale ce l'ho già da molto tempo.
Raggiungiamo con qualche difficoltà fisiologica il luogo indicato nel giornale, tale Carboera; luogo nel quale riceviamo una brutta sopresa: nessun cartello, nessun palco montato, niente folla o spillatori di birra allo stato brado. Niente di niente, insomma...maledizione.
Tuttavia questo piccolo inconveniente non riesce minimamente a scalfire la nostra corazza di entusiasmo, mica siamo la nazionale di calcio, noi, abbiamo grinta da vendere. Troviamo un gruppetto di ragazzi molto sci sci, o cool se preferite, in canotta e infradito d'ordinanza per ogni buon truzzo che si rispetti, appollaiati intorno al tavolino del bar centrale. MrHare, che ne sa a pacchi di comunicazione e linguaggio, viene scelto dal sempre inappellabile Algoritmo Causale per andare a chiedere qualche delucidazione sul disguido tecnico capitatoci.
Il buon vecchio compagno di sventure torna raggiante, mi informa degli ultimi sviluppi della situazione e subito ripartiamo gagliardi come pochi alla ricerca di un posto rispondente al nome di Vascon, frazione di Carbonera.

Qualche chilometro e siamo decisamente persi in mezzo ai campi rigogliosi nelle campagne a nord-ovest di Treviso. Tutto quello che vediamo per strada è un cartello piazzato su una transenna, nel bel mezzo di un incrocio, che ci informa di una gara di rally che verrà a breve. Questo, credetemi, non ci consola affatto.
Mentre considero che perdersi capita molto spesso a chi naviga a vista lungo le strade del rock, ed è essenziale per capirne la poesia e coglierne fino in fondo la belleza, decido che altrettanto fondamentale è perseverare nel seguire l'istinto, così imbocco la prima uscita che mi si para davanti in questa fottutissima e minuscola rotatoria persa in mezzo al nulla in cui ci troviamo, ingrano la grintosissima terza del mio Maledetto Cesso A Pedali (sì, ho dato alla mia macchina un nome, e allora?), affondo il gas e torniamo ruggenti in pista, anche se con le stesse flebili certezze.

Continuiamo così a costeggiare sterminati campi coltivati lungo stradine snelle e filiformi con in testa un solo nome: Vascon. In questo momento sono sereno, so che in qualche modo arriveremo a destinazione, fosse la prima cosa buona che faccio da mesi a questa parte, perchè la volontà non ci manca così come la benzina nel motore. L'unica minuscola ombra che minaccia il nostro sorriso è dovuta alla birra che sta per finire.
La vita pone spesso sfide difficili.

Passano infiniti secondi e decisamente pochi chilometri quando improvvisamente, dietro una curva, solo apparentemente uguale a tutte le altre, ci compare in lontananza un campanile alto ed appuntito. Ora, se siete veneti sapete già cosa questo voglia dire, se non lo siete considerate che quando siete persi nella sterminata pianura padana orientale alla ricerca di una qualsiasi forma di civiltà, un campanile di una chiesa ha lo stesso impatto visivo di una gigante bandiera con scritto "Terra" dopo mesi di navigazione senza bussola.
Ed infatti, appena la strada raggiunge la base del campanile in questione, ci appaiono una sequenza di tendoni bianchi disposti l'uno accanto all'altro che ci fa pensare di aver raggiunto ancora una volta la meta che ci eravamo prefissati.

Troviamo il parcheggio più vicino possibile, dato che la figura del rocker e quella dello sportivo non sono storicamente compatibili, raggiungiamo la piazzetta telonata del festival, ci avviciniamo alle prime cassiere che troviamo e facciamo quello che ogni scafato appassionato di musica farebbe prima dell'inzio di un concerto: focalizziamo i punti chiave.
"Scusa, ci servono un bagno e un tabaccaio. Dove li troviamo?"
La bionda e brufolosa adolescente accusa il colpo. I suoi vitrei occhi azzurri sembrano colti di sorpresa dalla schiettezza della domanda e, soprattutto, dall'accento palesemente forestiero. Vacilla per un secondo.
Ma per fortuna non si dà per vinta: recupera le forze, riesce in qualche modo a riorganizzare una controffensiva interore e ad indicarci dove e come soddisfare i nostri impellenti bisogni.

Il palco è già pronto e di gente in giro ce n'è fin troppa considerate le dimensioni della piazzetta, e in silenzio tutti aspettano l'inizio della serata tra una pizza, una birretta e quattro chiacchiere di compagnia. In sottofondo si sentono solo le canzoni dei Muse che escono dalle casse, niente tecnici del suono che sbattono sulla batteria per amalgamare i volumi, niente fischi dai microfoni o dagli amplificatori, sembra che tutto sia là pronto per l'uso da sempre. I Marta sui Tubi li trovo avanti al bancone a degustare bionde medie intrattendendosi con altre bionde, in carne, curve ed ossa, che sembrano penzolare dalle loro labbra. Capisco che per una donna non sia facile resistere al fascino della coppola sicula indossata vita natural durante dal cantante e della barba incolta del chitarrista.
Degli Zen Circus invece non ho ancora tracce sul mio radar.

Intanto MrHare comincia a scattare qualche foto di riscaldamento, sa che lo aspetta una lunghissima ed estenuante serie di inquadrature, e di sicuro ne ha viste e vissute troppe di serate così per farsi trovare impreparato come il primo dei dilettanti. Lo vedo inquadrare tutto quello che può, anche quello che uno scatto non lo merita affatto, e mi viene il sospetto che i suoi baffi servano solo a non tradire un'origine nipponica che altrimenti, in questo momento, parrebbe difficile da non cogliere.

Poi si inizia. Lo si capisce dalle luci che calano, la musica in diffusione che si arresta di colpo per lasciare spazio all'arringa improbabile ma realmente pronunciata della Carfagna contro il gay pride a Roma, dai disegni intorno al palco (probabilmente realizzati sotto effetto di potenti lisergici) che si illuminano e sembrano prendere vita.
Non hanno un'entrata scenica gli Zen, non sono delle rockstar, grazie a dio, e lo si capisce a naso. Semplicemente entrano uno dopo l'altro con gli strumenti già in mano e accordati, attaccano jack e orpelli elettrici vari, accendono gli amplificatori, sistemano su una cassa un maiale di peluche (un maiale di peluche? Boh...), ci salutano e lasciano partire il riff solido e quadrato di Gente di merda. Suonano in linea, i tre del circo zen: la batteria non è dietro, non è rialzata, non è altrove. E' là in mezzo ai due strumenti a manico ed è scarnissima: rullante, timpano, charlestone e crash. Stop. Grazie di esistere.
E così si va veloci lungo un repertorio di ironia ed irriverenza tagliente ed intelligente, passando leggerissimi da Vent'anni a Figlio di puttana, dall'inno L'egoista al manifesto politico Andate tutti affanculo. Mi accorgo piano piano di essere circondato da bambini e famigliole, e questo mi prova una volta di più quello che ho già avuto modo di notare in questi ultimi mesi, ovvero quanto sia incontenibile la fecondità dei nostri concittadini veneti.
Ma questa è un'altra storia, torniamo a noi.
I nostri eroi dello zen auto da fè sono persone molto intelligenti, e dato che oggi la nazionale è riuscita finalmente a farsi eliminare dai mondiali di calcio dopo due ottimi tentativi, sanno benissimo che stasera potranno parlar male, anzi più male del solito (anche se non si dice), della nostra patria senza essere minimamente criticati da qualcuno. Il calcio sa blandire le menti di noi poveracci più di quanto sappiano fare politici e fatti di cronaca, triste ma vero.
E così, nonostante la presenza dei soggetti sopra citati, essi non rinunciano a sparare frecciatine a più o meno tutti i costrutti sui quali si fonda il nostro paese e ogni altra democrazia del ventunesimo secolo: disciplina, ordine, lavoro, religione. Vi amo ragazzi.
Alla fine della loro esibizione staccano jack, cazzi e mazzi, ma invece di tornare dietro le quinte li vediamo scendere dal palco, e prima che qualcuno possa sorprendersi sono già oltre le transenne per regalrci un acustico fuori programma.
Del motivo per il quale quelle barriere di metallo siano là non ho parlato perchè non ritengo che valga la pena sprecarci nemmeno una riga.

Non so se sia giusto parlare di metaconcerto in questo caso, non so se gli Zen vogliano in questo momento svelare e rompere l'artificio illusorio dell'evento stesso per rivendicare l'origine popolare del fenomeno musica o se siano semplicemente ubriachi. So, però, che cantare Ragazza eroina faccia a faccia con loro è stupefacente, molto più della semplice battuta (grazie Offlaga).
Ormai mi è chiaro: ogni loro gesto è così estremo nella sua naturalezza che diventa un inno all'anarchia, un'istigazione alla vita. E va benissimo così.

Con mia grande amarezza però il loro concerto finisce, e mentre sono in fila per prendere due birre che avranno il compito di rinfrescarci, con MrHare fermo a presidiare e salvaguardare il nostro posto in griglia, sento che i preparativi per l'arrivo del main-event della serata stanno per finire. Infatti ritorno sulle stesse mattonelle di prima giusto in tempo per vedere comparire sul palco l'ultimo componente dei Marta Sui Tubi: il cantante, in carne panza ed ossa.
Un bel vedere, niente da dire.

Bè, signore e singori, che dire? I Marta dal vivo funzionano come un incantesimo. Sono tecnicamente incredibili, hanno personalità da vendere, nessuna posa o aria da prima donna, tengono il palco con una sicurezza imbarazzante e dimostrano di essere degli abili mestieranti: appena si placano gli scroscioni di applausi sono subito pronti a farli ripartire infilando a ripetizione battutine a sfondo calcistico e politico. Che sappiano anche comporre belle canzoni, poi, lo sapevo già.
A questo punto spero almeno che gli puzzino i piedi. E lo dico senza cattiveria, sia chiaro. Il suono esce che è una meraviglia. Se li acolti con attenzione, ti accorgi che quando alzano i volumi sembrano i Rage Against The Machine, quando aumentano i ritmi ricordano i Red Hot Chili Peppers di Blood Sugar Sex Magik, quando vanno sul melodico diventano incantevoli, ma se li guardi vedi solo un violoncello, una chitarra acustica,, una pianola, una batteria standard e un'ugola più che rispettabile dietro al microfono, e realizzi, sgranando gli occhi, che di gente così in giro oggi ce n'è veramente poca.
Isomma, bello.
L'abbandono è un colpo al cuore, soprattutto per chi come noi due profughi della vita ha valigie da spostare che diventano sempre più grandi e pesanti ad ogni anno che passa, che a chiuderle fai una fatica boia; Via Dante è sempre un piacere raro e la chiusura con Perchè non pesi niente è appena meno che scontata ma efficacissima.
Certo però che Vecchi difetti avrei voluto proprio sentirla per cantarla via una volta per tutte, ma anche questa è un'altra storia.

Decidiamo di saltare la birra del congedo ché domani si lavora, accidenti a tutto, e bisogna accorciare al massimo i tempi del rientro in branda. Iniziamo dunque a recuperare la strada di casa. Mentre camminiamo uno dei miei ultimi sprazzi di lucidità mi ricorda che dopo la terza birra il mio sviluppatissimo senso dell'orientamente è solito andarsene inesorbailmente a fare in culo, così chiedo indicazioni per il ritorno all'omino preposto al controllo della transenna che chiude la strada di accesso al festival.
Ascolto concentrato e in religioso silenzio le sue indicazioni, le recepisco e me le tatuo nel cervello, al volante le metto in pratica scrupolosamente e in pochi minuti ci troviamo completamente fuori rotta al casello autostradale di Treviso Nord.
Intorno solo campi coltivati, ovviamente.
Stronzo di un omino, se il tuo compito è custodire un pezzo di ferro ci sarà pure un motivo.
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il buio 24 ore (rubrica di economia, acidi gastrici, bestemmie)

Giorni di forti turbolenze sui mercati finanziari mondiali.
In seguito alle tragedie di Haiti e del Cile volano le quotazioni di Sostegno e Umanitario, ma si teme che sia solo l'ennesima enorme bolla speculativa, come quelle che si formarono sul mercato delle telecomunicazioni e della green economy anni or sono. Sconsigliati gli investimenti per chi ha orizzonti di medio-lungo termine e per tutti coloro che presentano una forte avversione al rischio.
Incerti gli umori intorno a Ricostruzione, ma si sa, la fortuna aiuta gli audaci. Mercato consigliato ad investitori scafati e patrimonialmente solidi. Astenersi improvvisati corsari della bassa finanza.
Focus sul mercato domestico.
Dopo gli eventi di qualche notte fa viene sospesa dalle negoziazioni Idiozia per eccesso di ribasso. Il suo valore è ai minimi storici.
Buone invece le previsioni sull'andamento dei titoli del colosso ideologico Democrazia dopo la ristrutturazione aziendale che lo ha scosso dalle fondamenta. L'eliminazione delle società satellite off-shore Eguaglianza, vera emorragia finanziaria del gruppo, ha permesso alla controllante di ricominciare a staccare dividendi ai suoi azionisti, dividendi che sono stati irrobustiti anche dall'intelligentissima opera di restyling di Giustizia in Par-Condicio: il marchio accattivante e la struttura molto più snella e flessibile della precedente sono stati i punti di forza del progetto. Troppo presto però per gridare alla rinascita, sono ancora insistenti le voci che confermerebbero l'acquisizione della maggior controllata di Democrazia, ovvero Repubblica, da parte di Banana.
Intanto, come ci faceva notare già qualche anno fa il fine analista Vasco Brondi, "gli addetti alla fabbricazione del buon umore sono in cassa integrazione", quindi Sorriso e Felicità rimangono ancora in amministrazione straordinari con il titolo sospeso in borsa. Continuano a volare altissimi, in netta controtendenza, i soulbond. Anima spa e compagnia bella rimangono i veri puledri gagliardi su cui puntare in questi tempi di vacche magre.