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Quando sembrava che tutto andasse in pezzi, a me non sembrava affatto

Nella mia casa precedente, che era poco più che un tugurio umidiccio e loffio, non avevo uno specchio, neanche uno e neanche al bagno. Questo non mi portava particolari turbamenti, potevo infatti specchiarmi ovunque volessi in giro per la città: le vetrine dei negozi, soprattutto quelle del corso centrale sempre lucenti e nitide, i bagni dell'università e perfino il polimetilmetacrilato (lo sapevate che plexiglass è una parola che non esiste, una parola commerciale? Nel dizionario delle advertisement words è infatti seguita dalla erre cerchiata: il simbolo del marchio registrato) della fermata del pulman mi tornavano molto utili a questo scopo.

Una sera però, tornando a casa da una cena faraonica tirata su con 4 scellini e maglie intrise di farina e sudore, trovai uno specchietto di una macchina a terra davanti al portone di casa. Strano, pensai, visto che di solito davanti a quel portone stazionavano solo incredibili deiezioni canine, barboni con la sottomarca del tavernello in mano e/o (le opzioni infatti non si escludevano a vicenda, anzi) qualche punkabbestia intento a lanciare e perdere la sua personale sfida alla forza di gravità.

Lo presi in mano, la plastica era perfettamente integra, al contrario del vetro che era irrimediabilmente spaccato lungo linee sghembe in parti diversissime fra loro. Aveva un che di strano e affascinante.
Non so per quale strana associazione di idee, ma decisi in quel momento che da quella sera avrei avuto anche io uno specchio, o meglio un orpello in pieno stile garage-punk surrogato di uno specchio.

Non fu facile appenderlo, non avevo infatti nè chiodi nè martelli in quella casa decisamente poco accogliente. Per fortuna avevo e ho un amico che si divertiva come un bambino a smontare e rimontare computer e laptop e tutto quello che fosse rettangolare e piccolo e pieno di lucette accattivanti. Era un clocker, ovvero coloro che "pimpano" i computer aumentandone il voltaggio e l'amperaggio e altri -aggio e farcendoli di neon colorati agganciati a ventole giganti in pieno stile fast and furious. Egli si definiva un "overclocker", per sottolineare come non fosse un clocker qualsiasi, mentre io lo chiamavo "l'albanese dei computer", il buon vecchio panzer, e questo non l'ha mai digerito, anche se ogni volta fingeva di sbellicarsi dalle risate. Diatribe dialettiche a parte, ho questo amico e ai tempi mi abitava anche abbastanza vicino. Grazie a lui rimediai chiodini e piccole viti, decisamente poco adatte a perforare canterti, ma era quello che passava il convento, o collegio, per meglio dire: il collegio studentesco. Del come entrai in possesso di un martello non starò qui a dirvi, non mi pare il caso.

Alla fine riuscii a conficcare in modo sufficientemente stabile uno di questi chiodini al muro, esattamente sopra il lavandino, come nelle case vere. Legai un'estremità di un elastico al perno dello specchietto che fino a qualche giorno fa lo collegava alla macchina, l'altra la fissai al chiodo con un nodo piano, reggendomi in fragile equilibrio sui bordi della vasca da bagno.
Mi piaceva da matti guardarmi lì. Quel pezzo di vetro rotto sapeva frammentarmi e destrutturarmi meglio di quanto la mia immaginazione avesse mai spauto fare. Ogni singola scheggia mi rifletteva con una luce e con un'angolazione diversa. Vedevo così il naso decisamente più grande della bocca, l'occhio destro due o tre vole più luminoso di quello sinistro e il collo che si attaccava a quarantcinque gradi alla testa. I lineamenti del viso erano ricomposti secondo uno schema nuovo. Insomma, c'erano tanti pezzi del mio viso e tanti modi per metterli insieme.
E mi piacevano tutti.

Quando lasciai quella casa fui felice, in fondo non aveva la caldaia e non aveva il forno, due elementi essenziali per la vita di un qualsiasi studente condannato a tirare a campare per ogni giorno della sua gioventù. Solo una cosa cominciò a mancarmi dopo qualche settimana. Non me ne accorsi subito, perchè in fondo si trattava di un dettaglio, di un oggetto piccolo in dimensioni e in importanza, avuto per caso oltre tutto.
Cominciai a sentire la mancanza di quel vecchio specchietto rotto, nero nelle plastiche e nelle crepe della superficie riflettente. Cominciai ad averne nostalgia perchè sapeva farmi vedere diverso ogni mattina e ogni pomeriggio, e perchè mi permetteva di focalizzare l'attenzione su alcuni punti piuttosto che altri. Una messa a fuoco mirata e più precisa.
Ora invece, nel mio bellissimo specchio ad ampia metratura contornato di lampadine bianche e tonde, vedo solo un'annoiata faccia smunta a cui non darei neanche un soldo di fiducia. La stessa faccia che comincia a farmi mediamente schifo tant'è piatta e scontata e banale.

Mi sembra che tutto vada in pezzi, ora che ne vedo sempre e solo uno solo.
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Venti minuti

Mio padre è morto dopo 54 anni complicati e un nome difficile da portare come un sorriso mai segnato da dubbi. Non andavamo d'accordo. Invecchiando trovo in me particolari di lui alla mia età di adesso: qualche segno delle mani, un'espressione allo specchio, un tono di voce.
Questa cosa non mi piace per niente.

Da quando se ne è andato ho un'eredità natalizia: aveva un amico, un milanese conosciuto al servizio militare in Friuli nei loro vent'anni.
Era l'inizio degli anni sessanta e devono essere stati momenti di grande condivisione e scoperta del mondo. Questo tizio io l'ho visto solo due volte, da bambino. Gente che aveva più borghesia e più boria di noi.
L'ho rincontrato, quell'amico lontano, solo davanti al letto di mio padre morente. Da allora quell'uomo ha deciso che io sono mio padre.
Ogni anno, la vigilia di Natale, chiama. Parla con me venti minuti di cose che non so e di un periodo in cui non ero ancora nato. Ha il tono cameratesco che usava con lui e si sbaglia perfino a chiamarmi per nome. Mi dice "ti ricordi quello lì?...quella là?..." esattamente come fossi lui.

Non ho mai condiviso le scelte di mio padre. L'ho odiato cordialmente da sempre. Ora che non c'è più sono sereno, ho risolto le cose che avevo in sospeso.
Ma ogni anno sento una voce che parla di lui come una persona meravigliosa e ne parla come non ne ho mai sentito parlare. Non lo riconosco in quelle storie di amicizia durata oltre la naturale scadenza. Resto in silenzio davanti alla devozione di un signore che mi è estraneo e che chiama ogni tanto da molto lontano e per pochissimo tempo.

E' una devozione che non è nemmeno paragonabile alla mia, che è quasi assente. Venti minuti. Non uno di più. Anche stamattina.
Parla, racconta, quasi piange. Si congeda e mi chiama col suo nome, poi si corregge.
Mette giù. Non era con me che voleva parlare.
Non era di me che aveva bisogno.
Mio padre per tanto tempo mi ha telefonato solo una volta all'anno, la vigilia di Natale.
Era l'unico gesto che si sentiva di fare nei miei riguardi, vista l'evidente ostilità che gli riservavo.
Quella telefonata, fatta da nove chilometri, freddi e distanti quanto lo stretto di Bering, gli costava molto, ma non se la negava mai. Un punto d'onore.

"Ciao figlio, tuo padre sta bene. Fatti sentire ogni tanto. Come sta tua madre? Valla a trovare. Almeno lei. Ciao figlio, buon Natale"

Per uno come Metuccio, doveva essere uno sforzo grandissimo.
Ultraterreno.
Talmente grande che ancora non si è esaurito del tutto.


offlaga disco pax - venti minuti