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Presa diretta

Dopo il terzo gol della Slovacchia l'idea di lanciare il televisore dalla finestra non ci risulta più così distante. Che cazzo, almeno un po' di dignità, per dio!
Scusate lo sfogo. Anzi no, niente scuse.
Il fatto è che ho visto troppe italiette da Usa94 ad oggi per sperare in un brusco cambiamento di rotta pronto a tradursi in un impeto di coraggio e bel gioco. La rimonta non ci sarà, e a questa triste verità sono arreso da subito.
In quanto a MrHare, bè, non so se la sua rassegnazione nasca dalle mie stesse valutazioni storiche o sia dettata solo dall'evidenza dei fatti, ma anche lui non sta certo ad aspettarsi sorprese.
Anche questa volta, dunque, l'Italia del pallone è fuori dai giri che contano, come in Inghilterra all'europeo del '96, anche se là ci aveva eliminato la Germania (sorvoliamo sul rigore di Zola, per favore), mica la cazzo di Slovacchia; come in Portogallo, nel 2004, dove abbiamo meritato in pieno il biscottone Danimarca-Svezia; come due anni or sono, infine, non ricordo neanche dove.
A pensarci bene sono talmente tanti i luoghi dove siamo andati a prendere pesci in faccia che resta difficile fare la conta.

Insomma, visto che non abbiamo più una buona ragione per festeggiare ne cerchiamo subito un'altra e volgiamo quindi lo sguardo all'immediato futuro, come la nazionale appunto. Un giornale, qualche giorno fa, ci ha portato a conoscenza dell'evento di questa sera. Quattro parole in particolare ci avevano colpito: Carbonera (frazione o comune o qualcosa da qualche parte intorno Treviso), Marta sui Tubi, Zen Circus, gratis.

Quindi, finito lo scempio calcistico, facciamo scorrere pochi minuti per una doccia veloce, una birretta d'incoraggiamento, capire chi viene e chi no e siamo in macchina splendidi come sempre. Un meccanismo di scelta dal nome di Algoritmo Casuale, brevettato e maneggiato con disarmante nonchalance da MrHare, decide che sia io a dover guidare stasera, ma il sospetto che quel marchingegno sia tutt'altro che casuale ce l'ho già da molto tempo.
Raggiungiamo con qualche difficoltà fisiologica il luogo indicato nel giornale, tale Carboera; luogo nel quale riceviamo una brutta sopresa: nessun cartello, nessun palco montato, niente folla o spillatori di birra allo stato brado. Niente di niente, insomma...maledizione.
Tuttavia questo piccolo inconveniente non riesce minimamente a scalfire la nostra corazza di entusiasmo, mica siamo la nazionale di calcio, noi, abbiamo grinta da vendere. Troviamo un gruppetto di ragazzi molto sci sci, o cool se preferite, in canotta e infradito d'ordinanza per ogni buon truzzo che si rispetti, appollaiati intorno al tavolino del bar centrale. MrHare, che ne sa a pacchi di comunicazione e linguaggio, viene scelto dal sempre inappellabile Algoritmo Causale per andare a chiedere qualche delucidazione sul disguido tecnico capitatoci.
Il buon vecchio compagno di sventure torna raggiante, mi informa degli ultimi sviluppi della situazione e subito ripartiamo gagliardi come pochi alla ricerca di un posto rispondente al nome di Vascon, frazione di Carbonera.

Qualche chilometro e siamo decisamente persi in mezzo ai campi rigogliosi nelle campagne a nord-ovest di Treviso. Tutto quello che vediamo per strada è un cartello piazzato su una transenna, nel bel mezzo di un incrocio, che ci informa di una gara di rally che verrà a breve. Questo, credetemi, non ci consola affatto.
Mentre considero che perdersi capita molto spesso a chi naviga a vista lungo le strade del rock, ed è essenziale per capirne la poesia e coglierne fino in fondo la belleza, decido che altrettanto fondamentale è perseverare nel seguire l'istinto, così imbocco la prima uscita che mi si para davanti in questa fottutissima e minuscola rotatoria persa in mezzo al nulla in cui ci troviamo, ingrano la grintosissima terza del mio Maledetto Cesso A Pedali (sì, ho dato alla mia macchina un nome, e allora?), affondo il gas e torniamo ruggenti in pista, anche se con le stesse flebili certezze.

Continuiamo così a costeggiare sterminati campi coltivati lungo stradine snelle e filiformi con in testa un solo nome: Vascon. In questo momento sono sereno, so che in qualche modo arriveremo a destinazione, fosse la prima cosa buona che faccio da mesi a questa parte, perchè la volontà non ci manca così come la benzina nel motore. L'unica minuscola ombra che minaccia il nostro sorriso è dovuta alla birra che sta per finire.
La vita pone spesso sfide difficili.

Passano infiniti secondi e decisamente pochi chilometri quando improvvisamente, dietro una curva, solo apparentemente uguale a tutte le altre, ci compare in lontananza un campanile alto ed appuntito. Ora, se siete veneti sapete già cosa questo voglia dire, se non lo siete considerate che quando siete persi nella sterminata pianura padana orientale alla ricerca di una qualsiasi forma di civiltà, un campanile di una chiesa ha lo stesso impatto visivo di una gigante bandiera con scritto "Terra" dopo mesi di navigazione senza bussola.
Ed infatti, appena la strada raggiunge la base del campanile in questione, ci appaiono una sequenza di tendoni bianchi disposti l'uno accanto all'altro che ci fa pensare di aver raggiunto ancora una volta la meta che ci eravamo prefissati.

Troviamo il parcheggio più vicino possibile, dato che la figura del rocker e quella dello sportivo non sono storicamente compatibili, raggiungiamo la piazzetta telonata del festival, ci avviciniamo alle prime cassiere che troviamo e facciamo quello che ogni scafato appassionato di musica farebbe prima dell'inzio di un concerto: focalizziamo i punti chiave.
"Scusa, ci servono un bagno e un tabaccaio. Dove li troviamo?"
La bionda e brufolosa adolescente accusa il colpo. I suoi vitrei occhi azzurri sembrano colti di sorpresa dalla schiettezza della domanda e, soprattutto, dall'accento palesemente forestiero. Vacilla per un secondo.
Ma per fortuna non si dà per vinta: recupera le forze, riesce in qualche modo a riorganizzare una controffensiva interore e ad indicarci dove e come soddisfare i nostri impellenti bisogni.

Il palco è già pronto e di gente in giro ce n'è fin troppa considerate le dimensioni della piazzetta, e in silenzio tutti aspettano l'inizio della serata tra una pizza, una birretta e quattro chiacchiere di compagnia. In sottofondo si sentono solo le canzoni dei Muse che escono dalle casse, niente tecnici del suono che sbattono sulla batteria per amalgamare i volumi, niente fischi dai microfoni o dagli amplificatori, sembra che tutto sia là pronto per l'uso da sempre. I Marta sui Tubi li trovo avanti al bancone a degustare bionde medie intrattendendosi con altre bionde, in carne, curve ed ossa, che sembrano penzolare dalle loro labbra. Capisco che per una donna non sia facile resistere al fascino della coppola sicula indossata vita natural durante dal cantante e della barba incolta del chitarrista.
Degli Zen Circus invece non ho ancora tracce sul mio radar.

Intanto MrHare comincia a scattare qualche foto di riscaldamento, sa che lo aspetta una lunghissima ed estenuante serie di inquadrature, e di sicuro ne ha viste e vissute troppe di serate così per farsi trovare impreparato come il primo dei dilettanti. Lo vedo inquadrare tutto quello che può, anche quello che uno scatto non lo merita affatto, e mi viene il sospetto che i suoi baffi servano solo a non tradire un'origine nipponica che altrimenti, in questo momento, parrebbe difficile da non cogliere.

Poi si inizia. Lo si capisce dalle luci che calano, la musica in diffusione che si arresta di colpo per lasciare spazio all'arringa improbabile ma realmente pronunciata della Carfagna contro il gay pride a Roma, dai disegni intorno al palco (probabilmente realizzati sotto effetto di potenti lisergici) che si illuminano e sembrano prendere vita.
Non hanno un'entrata scenica gli Zen, non sono delle rockstar, grazie a dio, e lo si capisce a naso. Semplicemente entrano uno dopo l'altro con gli strumenti già in mano e accordati, attaccano jack e orpelli elettrici vari, accendono gli amplificatori, sistemano su una cassa un maiale di peluche (un maiale di peluche? Boh...), ci salutano e lasciano partire il riff solido e quadrato di Gente di merda. Suonano in linea, i tre del circo zen: la batteria non è dietro, non è rialzata, non è altrove. E' là in mezzo ai due strumenti a manico ed è scarnissima: rullante, timpano, charlestone e crash. Stop. Grazie di esistere.
E così si va veloci lungo un repertorio di ironia ed irriverenza tagliente ed intelligente, passando leggerissimi da Vent'anni a Figlio di puttana, dall'inno L'egoista al manifesto politico Andate tutti affanculo. Mi accorgo piano piano di essere circondato da bambini e famigliole, e questo mi prova una volta di più quello che ho già avuto modo di notare in questi ultimi mesi, ovvero quanto sia incontenibile la fecondità dei nostri concittadini veneti.
Ma questa è un'altra storia, torniamo a noi.
I nostri eroi dello zen auto da fè sono persone molto intelligenti, e dato che oggi la nazionale è riuscita finalmente a farsi eliminare dai mondiali di calcio dopo due ottimi tentativi, sanno benissimo che stasera potranno parlar male, anzi più male del solito (anche se non si dice), della nostra patria senza essere minimamente criticati da qualcuno. Il calcio sa blandire le menti di noi poveracci più di quanto sappiano fare politici e fatti di cronaca, triste ma vero.
E così, nonostante la presenza dei soggetti sopra citati, essi non rinunciano a sparare frecciatine a più o meno tutti i costrutti sui quali si fonda il nostro paese e ogni altra democrazia del ventunesimo secolo: disciplina, ordine, lavoro, religione. Vi amo ragazzi.
Alla fine della loro esibizione staccano jack, cazzi e mazzi, ma invece di tornare dietro le quinte li vediamo scendere dal palco, e prima che qualcuno possa sorprendersi sono già oltre le transenne per regalrci un acustico fuori programma.
Del motivo per il quale quelle barriere di metallo siano là non ho parlato perchè non ritengo che valga la pena sprecarci nemmeno una riga.

Non so se sia giusto parlare di metaconcerto in questo caso, non so se gli Zen vogliano in questo momento svelare e rompere l'artificio illusorio dell'evento stesso per rivendicare l'origine popolare del fenomeno musica o se siano semplicemente ubriachi. So, però, che cantare Ragazza eroina faccia a faccia con loro è stupefacente, molto più della semplice battuta (grazie Offlaga).
Ormai mi è chiaro: ogni loro gesto è così estremo nella sua naturalezza che diventa un inno all'anarchia, un'istigazione alla vita. E va benissimo così.

Con mia grande amarezza però il loro concerto finisce, e mentre sono in fila per prendere due birre che avranno il compito di rinfrescarci, con MrHare fermo a presidiare e salvaguardare il nostro posto in griglia, sento che i preparativi per l'arrivo del main-event della serata stanno per finire. Infatti ritorno sulle stesse mattonelle di prima giusto in tempo per vedere comparire sul palco l'ultimo componente dei Marta Sui Tubi: il cantante, in carne panza ed ossa.
Un bel vedere, niente da dire.

Bè, signore e singori, che dire? I Marta dal vivo funzionano come un incantesimo. Sono tecnicamente incredibili, hanno personalità da vendere, nessuna posa o aria da prima donna, tengono il palco con una sicurezza imbarazzante e dimostrano di essere degli abili mestieranti: appena si placano gli scroscioni di applausi sono subito pronti a farli ripartire infilando a ripetizione battutine a sfondo calcistico e politico. Che sappiano anche comporre belle canzoni, poi, lo sapevo già.
A questo punto spero almeno che gli puzzino i piedi. E lo dico senza cattiveria, sia chiaro. Il suono esce che è una meraviglia. Se li acolti con attenzione, ti accorgi che quando alzano i volumi sembrano i Rage Against The Machine, quando aumentano i ritmi ricordano i Red Hot Chili Peppers di Blood Sugar Sex Magik, quando vanno sul melodico diventano incantevoli, ma se li guardi vedi solo un violoncello, una chitarra acustica,, una pianola, una batteria standard e un'ugola più che rispettabile dietro al microfono, e realizzi, sgranando gli occhi, che di gente così in giro oggi ce n'è veramente poca.
Isomma, bello.
L'abbandono è un colpo al cuore, soprattutto per chi come noi due profughi della vita ha valigie da spostare che diventano sempre più grandi e pesanti ad ogni anno che passa, che a chiuderle fai una fatica boia; Via Dante è sempre un piacere raro e la chiusura con Perchè non pesi niente è appena meno che scontata ma efficacissima.
Certo però che Vecchi difetti avrei voluto proprio sentirla per cantarla via una volta per tutte, ma anche questa è un'altra storia.

Decidiamo di saltare la birra del congedo ché domani si lavora, accidenti a tutto, e bisogna accorciare al massimo i tempi del rientro in branda. Iniziamo dunque a recuperare la strada di casa. Mentre camminiamo uno dei miei ultimi sprazzi di lucidità mi ricorda che dopo la terza birra il mio sviluppatissimo senso dell'orientamente è solito andarsene inesorbailmente a fare in culo, così chiedo indicazioni per il ritorno all'omino preposto al controllo della transenna che chiude la strada di accesso al festival.
Ascolto concentrato e in religioso silenzio le sue indicazioni, le recepisco e me le tatuo nel cervello, al volante le metto in pratica scrupolosamente e in pochi minuti ci troviamo completamente fuori rotta al casello autostradale di Treviso Nord.
Intorno solo campi coltivati, ovviamente.
Stronzo di un omino, se il tuo compito è custodire un pezzo di ferro ci sarà pure un motivo.