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quello che abbiamo scordato


Potrà anche non interessarvi, posso capirvi, ma la scelta di tenermi fuori dalla disputa morale su liberalizzazioni ed evasione fiscale che imperversa in queste settimane è stata per me profondamente ponderata. Sebbene io non abbia creduto neanche per un secondo nelle porprietà taumaturgiche del libero mercato - e, in effetti, sarebbe anche ora di bollare definitivamente come anacronistico il concetto della Invisible Hand che Adam Smith descrisse ormai 236 anni fa, in altri tempi e in altri contesti, e lasciarcelo finalmente alle spalle - e coltivi un'avversione viscerale verso lo stato liberista, credo fermamente che la critica su questi argomenti abbia bisogno di staccarsi un attimo dalla realtà fattuale per diventare più sistemica e profonda.

Il vizio del capitalismo è infatti ontologico: non si può basare un sistema sull'assioma della massimizzazione del profitto e poi negare a tutti i soggetti che quel sistema lo subiscono di goderne appieno. Non si può pretendere che questo assioma venga addirittura considerato come parametro di professionalità, impegno ed efficienza per alcuni soggetti (penso alle SpA, ma non sono le uniche) e sia, contemporaneamente, indice di corruzione morale per tutti gli altri. Dobbiamo accettare che, viste in questa prospettiva, le resistenze lobbistiche e i tentativi di escapologia fiscale sono strategie previste dalle regole del gioco.

Voglio aggiungere poi che le critiche mosse da chi si dimostra ostile, per forza o per amore, alle questioni di cui sopra nascono pur sempre, nella larghissima maggioranza, da rivendicazioni di tipo economico, che ai miei occhi rimangono sempre e comunque esecrabili perchè partono da una visione individuale e pragmatica che non permetterà mai di sviscerare a fondo l'argomento, di confrontarsi su di esso con la serenità e l'onestà intellettuale (ammesso che questo termine significhi ancora qualcosa) che ogni scambio di opinioni meriterebbe.

Quello che abbiamo scordato, in ultima analisi, è la capacità di osservare i fenomeni in prospettiva. Abbiamo scordato come si guarda la Luna, barattando questa capacità con un modesto mucchietto di inutili nozioni che ci lasciano il contentino di disquisire giornate intere su come e quanto sia incarnita l'unghia del dito.

Io continuo a pensare che ogni problema sia figlio della tanto onorata madre Competizione, e che potremo salvarci solo abbandonandola in un angolo di un vicolo buio per incamminarci nella strada della Cooperazione. Pena la morte della civiltà per come la pensiamo da secoli.
Basta fare i ricercati, è ora di cominciare a parlare chiaro.
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libero software in pessimo Stato

Leggo con apprensione un commento di Elio Gullo, direttore dei sistemi informativi di Enpals-Inps, sulla questione dell'utilizzo del software libero nella Pubblica Amministrazione, uno di quei tanti temi talmente semplici da capire nella loro ragionevolezza da non essere mai presi seriamente in considerazione.
Il direttore dice:

"Come direttore dei sistemi informativi, se qualcosa va storto devo potermi confrontare con un mio pari grado dal lato fornitore che risolva il problema e risponda eventualmente dei danni. Se il mio fornitore sono 10.000 sviluppatori sparsi per il mondo, con chi dovrei parlare? Pagare le licenze, insomma, significa comprare anche garanzie"

Sono veramente spaventato dal fatto che un direttore di una divisione informatica di una delle più grandi aziende del nostro paese possa avere una concezione di rapporti produttivi ancora così retrograda, capace unicamente di perpetrarei modelli passati (già dimostratisi ampiamente fallimentari, tra le altre cose). Non c'è bisogno di ricordare che la battaglia sul software libero va ben al di là della mera contabiizzazione dei costi statali o dell'efficienza tecnica, andandosi ad inserirsi in un impianto teorico molto più ampio in cui sono comprese tutte le battaglie di resistenza e civiltà che vengono proposte negli ultimi anni, a cominciare da quella sui beni comuni; ma vale la pena ricordare al megadirettore in questione che con il software libero - pensate un po!- non ci sarà più bisogno di un fornitore. Che magari, caro megadirettore, la scusa buona per rompere la struttura classica (e anche un po' classista) della filiera produttiva, che per noi semplici cittadini è tutto fuorchè un dogma, potrebbe venire proprio dalle macchine! Quale sorprendente vendetta della storia sarebbe questa, caro il mio megadirettore!

Fonte: L'Espresso.
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Il Mondo Nuovo


Nonostante questo progetto abbia appena quattro/cinque anni di vita, Il Teatro degli Orrori non è certamente un gruppetto liceale formato da ragazzini esaltati, e di conseguenza i componenti si sono resi subito conto che intitolare questo nuovo album "Storia di un immigrato" sarebbe stato un grosso errore. Avrebbe portato tutta una serie di paragoni fuori luogo con l'immenso Fabrizio de Andrè sviando l'attenzione dei contenuti proposti. Perchè siamo fatti così, noi pseudointellettuali che scriviamo (anche solo saltuariamente) di musica: sempre all'affannosa ricerca di citazioni e rimandi storici per tentare di nascondere la scarsa capacità di lettura e analisi dei contenuti.
Lo stesso antico vizio che esprimeva Jorge da Burgos ne Il Nome della Rosa quando affermava: "non c'è progresso nella storia della conoscenza, ma una mera, costante e sublime ricapitolazione".
Ecco, i Nostri erano coscienti di questo rischio ma hanno comunque deciso di chiamare il loro album Il Mondo Nuovo.
Certo, Aldous Huxley è un paragone molto meno ingombrante di Faber per ambito artistico e lontananza geografica, fatto sta che in questa settimana si sia parlato molto più di Brave New World che del disco in sè, come se di ciccia sul fuoco non ce ne fosse.
E invece ce n’è e anche parecchia. Il Mondo Nuovo è un concept album sul tema dell’immigrazione raccontato attraverso le storie e i nomi di alcuni immigrati. Coerentemente con questa impostazione scompaiono dall’album le sfuriate rock dei due magnifici predecessori, si alleggeriscono le chitarre e rallenta la sezione ritmica. Non si vive più di singoli momenti esplosivi o intimistici ma di un unico movimento, che perde di senso se sezionato, dove la musica diventa il palcoscenico dal quale Capovilla recita i suoi ricchissimi e sempre pregevoli testi.
Le melodie dilatate hanno poco a che fare con quelle più tirate e incisive cui ci aveva abituato la band veneta, ma questo non impedisce loro di regalarci dei momenti di intensità difficile da trovare in giro (NIcolaj su tutte; Ion, canzone per la quale è stata chiesta l'autorizzazione alla pubblicazione alla moglie dell’omonimo operaio; Vivere e morire a Treviso, almeno per me molto rappresentativa) e qualche episodio dall’incedere più sostenuto (Martino e il singolo Io Cerco Te).

Il Mondo Nuovo è un album complesso, che richiede tempi di digestione ancora più lunghi di Dell’Impero delle Tenebre, e molto coraggioso, perchè ci sfida ad ascoltare e riflettere senza fretta a proposito di un tema delicato che viene trattato sempre con troppa fretta dalla politica (nord)italica, preoccupata più di non scontentare le spinte emozionali (schèi) del popolino che di formare una coscienza civile al riguardo.
I pregi, però, finiscono qua. Questo album ha il grosso difetto di essere dominato e deformato nella sua struttura da un Capovilla eccessivo che dà l'impressione di non riuscire mai a farsi da parte, neanche per dare il tempo alle melodie di uscire dal bozzo e compiersi fino in fondo.
A mio avviso un mezzo passo falso.