Viaggio in musica /3
Micah P. Hinson
Hinson cominciò a incidere dischi nel 2004 con il meraviglioso Micah P Hinson & The Gospel of Progress, album che scoprii solo un paio d'anni dopo, grazie ad un coinquilino musicalmente curiosissimo, in coppia con Baby And The Satellite, all'epoca fresco fresco di stampa. Di dischi, negli anni seguenti, l'ormai trentenne texano continuò a produrne con generosità, io cominciai però a lavorare e questo mi portò inevitabilmente a perdere più di qualche aggiornamento.
Poi, appena due sere fa, ho ripreso contatto.
Micah si presenta da solo, con la sua acustica in versione bonsai e tutte le sue compulsioni: molti pacchetti di chewing-gum e litri su litri di succo d'arancia. E' un chiacchierone, racconta e si racconta. Ha le mani che tremano vistosamente - un incidente in Spagna, dice lui, che lo ha costretto a reimparare da zero a suonare la chitarra -, un paio di occhiali troppo grandi per stare su una testa così piccola e un gilet che niente ci azzecca con le Nike da tennis che porta ai piedi.
Poi comincia a suonare: gli accordi sono imprecisi, a volte stentati, i testi sembrano scivolargli via come fossero pensieri inafferabili.
Spesso si interrompe, ci guarda, si scusa, diventa rosso e comincia ad accordare ossessivamente il suo strumento. A volte è difficile stargli dietro perchè ci si rende facilmente conto che la sua non è teatralità, non vuole inscenare il vezzo, è tutto troppo spontaneo.
Alla fine però resta sul palco un paio d'ore e quando riesce a far funzionare tutto, in quei brevi minuti, rimane solo un ragazzo smilzo e vestito in modo orrendo con la sua musica meravigliosa. E' un folk che parla di amori che vanno e cazzotti che vengono, notti in cella - jail, not prison, it's not exactly the same thing, tiene a farci sapere - portato a livelli di intensità emotiva altissimi dalla sua voce rugosa e piena di polvere, che si alza dalle macerie dell'american dream e si va a ritagliare una posizione d'onore da qualche parte fra Bob Dylan e Tom Waits.
Non scorderò mai questo paio d'ore trascorse con lui.
Ci vorrebbero ogni giorno di ogni settimana personaggi così per ricordarci che fare musica è prima di tutto qualcosa che si desidera oltre ogni ragionevole limite, e lo stesso discorso vale per chi la ascolta; i discorsi su forma e sostanza vengono dopo e lasciano il tempo che trovano. Mi sono sentito meglio dopo una ventina di canzoni tutte antipodali all'epica rock di stampo anglosassone fatta di conerti larger than life e tonnellate di cattivo gusto, rincuorato e più soddisfatto, perchè c'è bisogno di persone vere in un mondo di tappeti rossi e anteprime mondiali.
La musica tutta ti ringrazia, se è ancora vero che è la più effimera e fragile delle arti, Micah.
"May your songs always be sung
and may you stay forever young"
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